Mar
04
2014
Il Renzi di Governo
Intervista pubblicata su http://confini.blog.rainews.it/

Come si svilupperà l’iniziativa politica del “Matteo 1”? Quali saranno gli ostacoli per Renzi? Ne parliamo con il Senatore Giorgio Tonini, Vicepresidente del gruppo del PD a Palazzo Madama.

Tonini, incominciamo con il “peccato originale” del governo Renzi: ovvero la “defenestrazione” di Enrico Letta (che non è stata il massimo della coerenza per Renzi.) L’ immagine che ne è uscita fuori è quella di un uomo dalla smisurata ambizione ed anche un po’ “parolaio”. Era così “necessaria” la cacciata di Letta?

Di “necessario” in politica non c’è quasi mai nulla. Semmai ci si dovrebbe chiedere se è stato opportuno. Personalmente non nutro particolari rimpianti per il governo Letta, che nell’insieme non è stato all’altezza delle aspettative e soprattutto dei problemi del Paese. Semmai provo una certa apprensione per la decisione di “sparare”, in un contesto di sostanziale (anche se non completa) continuità del quadro politico, una cartuccia preziosa come quella della leadership di Renzi. Sono stato tra quanti gli hanno raccomandato prudenza e hanno sostenuto la preferibilità di arrivare alla premiership attraverso un mandato popolare: non per astratte motivazioni di legittimità democratica (spesso peraltro sostenute, con evidente sprezzo della coerenza, dai teorici della “centralità del Parlamento”), ma per ragioni di realismo, perché solo un chiaro mandato popolare può conferire al premier la forza necessaria a vincere le grandi resistenze che in Italia si oppongono alle necessarie riforme. Renzi ha ovviamente riconosciuto la fondatezza di questo argomento. Ma ad esso ne ha opposto un altro, non meno convincente: dopo l’uscita di Berlusconi dalla maggioranza di governo e la ri-fondazione di Forza Italia, il governo Letta è diventato nei fatti, agli occhi dei cittadini, un governo del Pd. A quel punto non aveva più molto senso una strategia in due fasi, che rinviasse a dopo le elezioni (per di più nell’impossibilità di tenerle subito) il pieno dispiegamento della capacità innovatrice del Pd a trazione renziana. Bisognava giocare subito la carta più forte che avevamo e dunque avvicendare Letta con Renzi.

Quali sono stati gli errori di Enrico Letta?

Fondamentalmente due: l’Imu e l’articolo 138. Poiché li avevo denunciati pubblicamente a tempo debito, mi sento moralmente autorizzato a farlo oggi, a esperienza conclusa. Sull’Imu Letta ha subito la linea imposta da Berlusconi, che ha fatto della cancellazione per tutti dell’imposta sulla prima casa un punto di principio, una posizione non negoziabile. Abbiamo così bruciato miliardi, sul bilancio 2013, per un obiettivo sul quale è lecito nutrire dubbi in via generale, ma che soprattutto era e resta un grave errore nell’impiego ottimale delle scarse risorse disponibili. Nel confronto con l’Europa, dopo l’istituzione dell’Imu da parte del governo Monti, l’Italia è sostanzialmente in linea con il livello di pressione media sui patrimoni, prima casa compresa. Dove siamo invece del tutto fuori squadra è sulla tassazione del lavoro e dell’impresa. Ed è lì che avremmo dovuto concentrare gli sforzi: nella riduzione del famoso cuneo fiscale, per il quale invece, anche a causa del diversivo Imu, non si sono trovate risorse sufficienti. A questo errore strategico si è sommata una incredibile imperizia tecnica nel presentare la riforma della tassazione sulla casa: con quel balletto di sigle e di date che ha fatto infuriare i contribuenti. Il secondo errore si chiama articolo 138: abbiamo perso più di sei mesi nel vano tentativo di risparmiarne due o tre. Mi spiego meglio: come è noto l’articolo 138 della Costituzione è quello che stabilisce la procedura di revisione della Costituzione stessa. Una procedura rafforzata: doppia lettura a distanza di tre mesi da parte di entrambe le Camere, obbligo dei due terzi o, in caso di approvazione a maggioranza assoluta, facoltà di promuovere un referendum confermativo, eccetera. Il governo Letta ha impegnato il Parlamento per sei mesi nel tentativo di far approvare, con la procedura dell’articolo 138, una legge che consentisse qualche modesta deroga al medesimo 138, per l’approvazione in questa legislatura delle riforme costituzionali (a cominciare dalla modifica del Senato). Risultato: il governo ha prodotto un nulla di fatto anche su questo terreno.

Lei pensa che Enrico Letta lascerà il PD?

Non lo so, ma non credo. Naturalmente Enrico Letta ha qualche ragione nel recriminare circa le modalità del suo avvicendamento a Palazzo Chigi. Ma si tratta di recriminazioni che possono avere a che fare con la forma, ma non con la sostanza. Letta era stato scelto dai partiti e fiduciato in Parlamento. I partiti, a cominciare dal Pd, hanno deciso di cambiare il presidente del Consiglio per dare più forza e incisività al governo. Si può ovviamente non condividere questa decisione, ma onestamente non capisco il motivo dello scandalo.

Come giudica la squadra di Renzi?

Nelle condizioni date, Renzi ha fatto un capolavoro politico. Un capolavoro di immagine, anche se in parte ridimensionato a livello di viceministri e sottosegretari, dando vita ad un governo numericamente asciutto e con il doppio record di età media dei ministri e di presenza femminile. Ma anche un ottimo lavoro di blindatura politica della maggioranza e del Pd, dando spazio a tutte le anime della coalizione e del partito. Infine, è riuscito a scegliere, nelle diverse aree politiche, personalità comunque funzionali al suo disegno riformatore. Ci sono insomma tutte le condizioni per un lavoro efficace. Lei ha ammesso un ridimensionamento del colpo di immagine sui ministri quando si è trattato di scegliere i sottosegretari. Forse ha usato un eufemismo, se solo si considera il caso Gentile e poi quelli Barracciu, De Filippo, ecc…La squadra di sottosegretari e viceministri presenta punti di forza e di debolezza. Tra i punti di forza c’è l’Economia che potrà contare su una squadra di collaboratori del ministro Padoan di assoluta qualità a cominciare da un fuoriclasse come Enrico Morando: una personalità di assoluto rigore morale e di radicato orientamento riformista. Se si pensa che Enrico Letta aveva scelto per quella funzione Stefano Fassina, la scelta di Renzi a favore di Morando di c’è da sola la metà di tutto quel che c’è da dire sull’orientamento al cambiamento del nuovo governo. Poi ci sono, certamente, anche le ombre. Poche donne e soprattutto scarsa attenzione, in alcuni casi, ad un requisito “europeo” che dovrebbe essere indiscutibile: ministri e sottosegretari devono essere persone al di sopra di ogni sospetto. Le dimissioni di Gentile hanno dimostrato l’insostenibilità di qualsiasi posizione di governo in una condizione diversa da quella della assoluta irreprensibilità.

La presenza della berlusconiana, e membro della “Trilaterale”, Guidi, insieme ad altri berlusconiani, induce a cattivi pensieri…

Anche il governo Letta è partito tra i processi alle intenzioni e i retroscena complottistici, che lo dipingevano come il frutto di un patto scellerato tra Berlusconi e addirittura Napolitano, basato sullo scambio tra stabilità di governo e impunità per il Cavaliere. Il voto al Senato sulla decadenza di Berlusconi ha falsificato tutte queste maleodoranti sciocchezze. Ora si sta tentando di ripetere il gioco con il governo Renzi. Ma la presunta berlusconiana ha smentito di essere mai stata tale e di aver declinato una proposta di candidatura pervenutale da Alfano. La scelta di Giacomelli come viceministro delegato alle telecomunicazioni dovrebbe aver messo la parola fine anche a questa ennesima manifestazione della cultura del sospetto.

Il discorso “programmatico” sulla fiducia ha messo in luce, insieme ad un indubbio volontà di protagonismo, una vaghezza di contenuti. Un settimanale inglese “Economist” lo ha bocciato. Quali sono i punti deboli del “Matteo 1″?

Mah, l’Economist l’ha bocciato, ma il Financial Times invece l’ha promosso… Questi endorsement lasciano il tempo che trovano. Quel che conta è che per ora lo hanno promosso sia i cittadini (almeno stando ai sondaggi), che i mercati. Renzi ha tenuto sia in Senato che alla Camera un discorso che volutamente parlava più ai cittadini che a deputati e senatori. Non si è trattato di populismo, ma di un realistico allarme sulla caduta di credibilità della politica: una tendenza che può essere ribaltata solo attraverso un chiaro e severo percorso di riforme, delle istituzioni e della macchina pubblica, dalla scuola alla giustizia, passando per il fisco e la pubblica amministrazione. Gli impegni hanno colpito favorevolmente cittadini e mercati. Ora, naturalmente, il governo Renzi è atteso alla prova dei fatti.

Veniamo alla “politica di comunicazione” del governo. Basterà dire che “Renzi è il messaggio”?

Per decenni a sinistra ci siamo lamentati di non avere un comunicatore competitivo con Berlusconi. Ora che c’è lo abbiamo sembriamo disprezzarlo: intendo dire noi dirigenti di partito, perché invece i nostri elettori mi pare apprezzino e molto. Detta questa che dovrebbe essere un’ovvietà e cioè che è meglio avere un leader capace di comunicare che uno incapace, resta da dire l’altra ovvietà: nessun pubblicitario è in grado di vendere, se non per un tempo limitato, un prodotto che nel contenitore promette qualcosa che il contenuto non mantiene. Anche Renzi, come fu per Berlusconi, è atteso alla prova dei fatti. Berlusconi è stato bocciato alla prova del governo. Renzi sa che per vincere deve dimostrare di saper governare e di riuscire a fare le riforme che servono al paese.

Renzi ha dato un orizzonte di legislatura (2018). Lei crede a questa prospettiva?

Non mi sbilancerei in previsioni. L’esperienza tuttavia mi dice che sciogliere le Camere è molto più difficile di quanto si pensi. E può succedere solo in due casi. O quando davvero nessuno è in grado di ricomporre una coalizione di governo andata in crisi. Oppure quando emerge un attore del gioco politico essenziale per la formazione del governo e interessato ad anticipare il voto perché convinto di vincere. La prima condizione potrebbe verificarsi in caso di crisi dell’attuale maggioranza, magari per implosione del Ncd. La seconda potrebbe verificarsi in caso di successo di Renzi come premier e di forte crescita elettorale del Pd. Dunque le elezioni anticipate sono tutt’altro che scomparse dall’orizzonte e non c’è patto politico in grado di scongiurarle. Ma da qui a dire che siano un esito probabile ce ne corre.

Il “velocismo” (così Giovanni Sartori definisce ironicamente il “culto” di Renzi per la velocità) non rischia di provocare errori e aspettative esorbitanti?

Tutto è possibile, ma non vedo cos’altro Renzi possa fare per tentare di rimontare il crollo di fiducia nella politica. Al momento è proprio la sua velocità nell’azione politica, che gli italiani vedono come promessa di velocità nell’agire di governo, la ragione principale della sua popolarità. Oltretutto, Renzi sa bene che la velocità è anche l’unico modo per prendere in contropiede le i finite resistenze che in Italia si frappongono al cambiamento. Se rallenta, diventa un bersaglio facile da colpire.

Il PD è entrato nel PSE (Partito Socialista Europeo), si tratta indubbiamente di un passaggio importante per il PD. Rodotà sulla “Stampa” l’ha definita, polemicamente, una “scelta più legata alla strategia che alla sensibilità”. Per Lei?

Se per sensibilità si intende un orientamento ideologico, Rodotà ha ragione: noi non siamo diventati “socialisti”. Anche perché nemmeno i socialisti storici europei si considerano più tali. La Spd ha chiesto di trasformare l’Internazionale socialista in una Internazionale progressista, aperta anche a forze diverse, a cominciare dai Democratici americani. Se invece per sensibilità si intende collocazione sull’asse destra-sinistra, è chiaro come il sole che noi democratici italiani siamo un partito di centrosinistra esattamente come lo sono i socialisti francesi o spagnoli, i socialdemocratici tedeschi, i laburisti inglesi. Alla sensibilità così intesa si somma certamente la strategia: che per noi è riassumibile nello slogan più Europa, ma diversa. Candidando insieme Martin Schulz alla presidenza della Commissione europea diciamo che vogliamo più Europa politica. E anche che vogliamo un nuovo patto tra europei del Nord e del Sud (e tra tedeschi e italiani innanzi tutto) fondato sul binomio riforme-crescita. -

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