Dec
07
2013
Le primarie dopo il terremoto
Pubblicato su www.lavalsugana.it

Se l'ultima di novembre è stata una settimana storica, la prima di dicembre non ha voluto essere da meno. Alle 18 di mercoledì 4, prima il sito repubblica.it, poi l'Ansa, danno la notizia che l'attesa sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale si è abbattuta come un terremoto sui palazzi della politica. Il più colpito è Montecitorio, poi viene il nostro Palazzo Madama. E ancora, a ritroso, l'onda d'urto ha scosso Palazzo Chigi. Infine, risalendo il Colle, ha fatto oscillare e sussultare il Quirinale, per poi minacciare lo stesso Palazzo della Consulta, epicentro del sisma.

Non che fosse inatteso, il terremoto. Che anzi, è stato forse il sisma più annunciato della storia politica italiana. È che tutti si aspettavano una scossa, anche forte. E invece è arrivato lui, "The Big One", quello grosso, come chiamano in California il cataclisma che un giorno, chissà quando, potrebbe inghiottire la città di Los Angeles e risalendo lungo la faglia di Sant'Andrea, devastare mezza California, fino a San Francisco.

Per la verità, almeno a prima vista, tra i palazzi romani non ci sono stati crolli. E infatti in Senato i lavori procedono come da calendario: dopo un pomeriggio trascorso tra un incontro col presidente della Croazia, Ivo Josipović, e un'assemblea del gruppo Pd di ordinaria amministrazione, alle 19 si riuniscono le commissioni Esteri e Difesa per l'esame del decreto sulle missioni militari e civili all'estero.

Ma attorno a noi, è tutto un via vai di ingegneri, veri e improvvisati, che cercano di capire e dibattono tra loro, sui media vecchi e nuovi, se le strutture portanti della democrazia italiana sono ancora solide, o se hanno ceduto in modo strutturale e perciò irreparabile.

Per cominciare, il Parlamento è ancora legittimato a legiferare? Apparentemente sì, perché lo stesso comunicato della Corte costituzionale riconosce a queste Camere la facoltà di approvare una nuova legge elettorale, purché coerente con i principi costituzionali affermati dalla Consulta (dunque, niente premi di maggioranza eccessivi e niente liste bloccate).

Ma forse anche no. Perché l'elezione dei deputati non è stata ancora convalidata dalla Giunta di Montecitorio. E un ex-presidente della Corte, Piero Alberto Capotosti, dice che se i deputati non saranno convalidati prima della pubblicazione delle motivazioni della sentenza, non potranno esserlo più. Ma grillini e berlusconiani, che sentono l'odore del sangue e puntano alle elezioni subito, consentiranno la convalida? Stando alle reazioni a caldo, è prudente dubitarne.

Insomma, Montecitorio non è affatto detto che stia ancora in piedi. E se crolla la Camera, ovviamente crolla anche il Senato. E i due rami del Parlamento, crollando loro, si trascinano dietro Palazzo Chigi con dentro il governo Letta. 

Le fondamenta del Quirinale dovrebbero essere più solide, ma berlusconiani e grillini, in preda ad un incontenibile furore distruttivo, hanno cominciato a parlare di "impeachment" del presidente, cioè di messa in stato d'accusa di Napolitano: non si capisce con quale motivazione, ma sarebbe come chiedere 'perché lo fate?' ad un'orda di ultrà che devastano uno stadio.

A dire il vero, gli assalitori del Colle una risposta la danno: perché vogliamo le elezioni subito. E se Napolitano non ci dà il voto, il suo è alto tradimento. Evidentemente, vogliono andare a votare con la legge elettorale uscita dalla sentenza della Corte. Una legge elettorale che assomiglia maledettamente a quella con cui si votò nel 1992, l'anno di morte della Prima Repubblica: proporzionale "quasi" puro (a differenza di allora, oggi avremmo una soglia nazionale del 4% alla Camera e una regionale dell'8 al Senato), con la preferenza unica in entrambi i rami del Parlamento (e questa, per il Senato, sarebbe invece una novità assoluta).

È chiaro come il sole che, con una legge del genere, avremmo un Parlamento spaccato in tre o quattro pezzi, nessuno dei quali in grado di andare molto oltre il 30%, ad essere ottimisti. Quindi, nessun governo legittimato in via diretta dai cittadini. Di nuovo larghe intese, tra queste forze politiche, sempre più incompatibili tra loro. O, più probabilmente, ancora voto. Come a Weimar. Uno scenario da incubo.

Giovedì sera, da Napoli, il presidente della Repubblica cerca di puntellare le mura pericolanti della democrazia italiana e di indicare una via d'uscita. Il Parlamento è legittimato ed ha anzi il dovere di intervenire: sulla legge elettorale, restando nell'alveo del maggioritario, come deciso dal popolo sovrano che, con il referendum Segni del 1993, si era lasciato alle spalle il proporzionale; e sulla stessa Costituzione, almeno approvando la riduzione dei parlamentari e il superamento dell'attuale bicameralismo paritario.

Parole pesanti, che suonano anche come una presa di distanze dalla sentenza della Consulta. Voci non confermate parlano di una spaccatura in seno alla Corte, con una cospicua minoranza (6 o 7 giudici su 15) che spingeva per una sentenza diversa: abrogazione totale del Porcellum e "reviviscenza" del Mattarellum, la vecchia legge elettorale, ancora in vigore per il Senato in Trentino Alto Adige, figlia del referendum Segni e basata sui collegi uninominali. E invece, la Corte ha preferito, a maggioranza, un'altra strada, quella della ricostruzione di un proporzionale con la preferenza.

I giudici supremi tacciono. Ma berlusconiani e grillini non si impressionano e continuano a tenere il Quirinale sotto tiro. Ora la parola passa ai cittadini. Vedremo se ci saranno le elezioni, se subito o più avanti e con quale legge elettorale. Per intanto una votazione c'è ed è quella delle primarie del Pd. Sembrava un appuntamento stanco e scontato. E invece è la prima, immediata possibilità per i cittadini di far sentire la loro voce.

Romano Prodi, che aveva deciso di non andare a votare, in neppure molto velata polemica contro il suo partito, diventato il partito dei 101 franchi tiratori contro di lui, contro il padre dell'Ulivo, annuncia che andrà: "per difendere il bipolarismo", contro la restaurazione proporzionalistica; e per sostenere il Pd, l'unico partito che, pur con tutti i suoi difetti, è in campo per questa causa.

Prodi non dice per chi voterà e forse è giusto così. Io invece lo dico: voterò per Matteo Renzi, quello dei tre candidati che meglio può guidare il Pd, sia nell'ipotesi, assolutamente preferibile, che si riesca a percorrere la strada stretta proposta da Napolitano, sia che si debba andare subito al voto, a fare muro contro il "partito dello sfascio" Berlusconi-Grillo. Nessuno degli altri due, né Cuperlo, né Civati, sarebbe in grado di farlo con la stessa credibilità e autorevolezza. Non a caso entrambi dichiarano di candidarsi alla segreteria del partito e non alla guida del governo. Diversamente da quanto prevede, saggiamente, lo statuto del Pd. Ma è di un leader a tutto tondo, non di uno dimezzato che abbiamo bisogno, in un momento drammatico come questo.

Giovedì 5 dicembre mattina il Senato ha approvato, con la fiducia posta dal governo, il decreto missioni. Nella mia dichiarazione di voto, a nome del gruppo del Pd, ho espresso rammarico per questa scelta, perché il decreto missioni era sempre stato un provvedimento bipartisan, condiviso dai governi e dalla maggior parte delle opposizioni. L'ostruzionismo praticato alla Camera da Sel e M5S, che ha tenuto bloccato l'iter di conversione per 55 giorni (sui 60 previsti dalla Costituzione, a pena di decadenza del decreto) non ci ha lasciato alternative.

Nel mio intervento, che potete leggere sul mio sito www.giorgiotonini.it, ho anche garbatamente polemizzato col senatore grillino Crimi, riguardo all'interpretazione dell'articolo 11 della Costituzione e al senso della profezia di Isaia "forgeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci". Quel versetto della Bibbia, ho ricordato, è scolpito sulla pietra di un monumento alla pace sulla First Avenue di New York, davanti al Palazzo di Vetro, sede delle Nazioni Unite.

Isaia dice che la pace arriverà "alla fine dei giorni", quando il Signore sarà giudice unico tra le genti. In forma assai imperfetta, l'ONU non è che il tentativo di anticipare nella storia la profezia religiosa di Isaia. È l'ONU, nella sua fragilità il giudice unico tra le genti che opera per la pace possibile. Le nostre missioni sono tutte autorizzate e anzi promosse dalle Nazioni Unite. Ed è per questo che votare per il loro rinnovo è votare per la costruzione, lenta e faticosa, ma concreta, di un ordine internazionale fondato sulla giustizia e la pace, come prescrive l'articolo 11 della nostra Costituzione.

0 commenti all'articolo - torna indietro

(verrà moderato):

:

:

inizio pagina