Ci sono settimane e settimane. Quella che si è appena conclusa, l'ultima di novembre, è destinata a restare negli annali di storia politica italiana. È la settimana nella quale il Senato ha votato la decadenza di Silvio Berlusconi da senatore. È la settimana che ha segnato la fine delle larghe intese e la nascita di una nuova maggioranza di governo, basata su un'alleanza del Pd al centro. È la settimana nella quale, all'interno di un maxiemendamento del governo, interamente sostitutivo della legge di stabilità, è stato approvato dal Senato, con il voto di fiducia, anche un nuovo patto finanziario tra lo Stato e le province autonome di Trento e di Bolzano.
Cominciamo da quest'ultimo evento, anche perché è stato il primo a verificarsi, in ordine di tempo. Lo scorso fine-settimana non sono tornato a Trento. Sono rimasto a Roma, anche perché, in commissione bilancio, senza interrompere neppure sabato e domenica, si discuteva e si votava la legge di stabilità. Solo Fravezzi, tra i senatori trentini, è membro effettivo, quindi con diritto di voto, della commissione bilancio. Ma tutti i senatori possono partecipare (senza diritto di voto) alle sedute. Dunque sia Zeller che Panizza che io stesso abbiamo preferito non allontanarci da Roma e da quell'aula nella quale era in gioco un pezzo importante della nostra autonomia speciale.
Il mio ruolo non è stato particolarmente significativo. Nella divisione del lavoro al nostro interno, a me era affidato, come è ovvio, il compito di presidiare la frontiera col Pd, per evitare che nel partito più importante in questo parlamento prevalessero le posizioni antiautonomiste e in particolare ostili alle autonomie speciali. Ho dunque mantenuto un rapporto costante con la presidenza del gruppo, di cui faccio parte, e con il relatore di maggioranza della legge di stabilità, il senatore veneto Giorgio Santini, mio vecchio amico, dagli anni della mia antica militanza nella CISL.
Ma stavolta, dal fronte del Partito democratico, non è arrivata nessuna minaccia. Anche perché i tre uomini-chiave nel governo, tutti e tre del Pd, sono tutti e tre amici ed estimatori delle autonomie speciali in generale e del Trentino in particolare. Mi riferisco a Enrico Letta, a Dario Franceschini e a Graziano Del Rio. Le vere resistenze all'accordo con Trento e Bolzano sono venute dalla tecnostruttura del ministero dell'Economia e dalla Ragioneria generale dello Stato. Ho fatto qualche colloquio con qualche alto funzionario di quei palazzi. Penso sia stato utile. Ma la decisione politica era già presa e loro lo sapevano.
Sono molto contento del risultato che tutti insieme, senatori e deputati eletti in Trentino Alto Adige, abbiamo portato a casa. Possiamo dire di aver mantenuto la parola data in campagna elettorale, solo pochi mesi fa. Avevamo preso l'impegno, come candidati del centrosinistra autonomista, di lavorare "insieme per l'autonomia". E così è stato. Abbiamo lavorato come una squadra, senza protagonismi individuali, né gelosie di partito. E abbiamo seguito una linea, quella che avevamo indicato in campagna elettorale, che è risultata vincente e convincente.
Avevamo detto che le autonomie speciali di Trento e Bolzano non si sarebbero sottratte dal dovere di concorrere alle necessità del paese, in un momento di crisi drammatica come quello che l'Italia sta vivendo. Ma avevamo detto anche che le forme e i contenuti di questo nostro doveroso contributo sarebbero dovute essere coerenti con le norme di rango costituzionale stabilite dal nostro Statuto. Dunque, la nostra proposta era quella di contribuire alle necessità finanziarie dello Stato accollandoci un'altra quota di oneri oggi sostenuti dalla finanza statale e riferiti a servizi erogati sul territorio della nostra regione.
Così è stato. E nel maxiemendamento del governo sono riportati i termini dell'accordo con Trento e Bolzano (insieme a quelli, diversi, con Aosta e Trieste): il pesante contributo nostro all'equilibrio dei conti dello Stato è erogato sotto forma di trasferimento delle competenze (e dei relativi oneri) in materia di agenzie delle entrate e di amministrazione della giustizia. Ad ulteriore rafforzamento della nostra autonomia, il maxiemendamento prevede l'attribuzione alle due province della competenza in materia di tributi locali.
Questo pacchetto, ora all'esame della Camera, dovrà poi tradursi in norme di attuazione dello Statuto, da approvarsi entro il 30 giugno del 2014. Poi arriverà il vero esame di maturità: man mano che aumentano le competenze e si riducono le risorse, diventa infatti sempre più stringente il profetico monito di Alcide Degasperi al nostro sistema autonomistico.
"Io che sono pure autonomista convinto e che ho patrocinato la tendenza autonomista - diceva Degasperi il 29 gennaio 1947, intervenendo durante i lavori dell'Assemblea costituente - permettete che vi dica che le autonomie si salveranno, matureranno, resisteranno, solo ad una condizione: che dimostrino di essere migliori della burocrazia statale, migliori del sistema accentrato statale, migliori soprattutto per quanto riguarda le spese. Non facciano la concorrenza allo Stato per spendere molto, ma facciano in modo di creare una amministrazione più forte e che costi meno".
Non potrà esserci garanzia migliore per la nostra autonomia che riuscire a dimostrare di essere capaci di gestire scuola e strade, università e ammortizzatori sociali, oggi anche agenzie delle entrate e giustizia, meglio dello Stato, spendendo meno dello Stato. In particolare, le competenze su agenzie fiscali e giustizia sono molto "sensibili" sotto il profilo democratico. Bisognerà dimostrare di saperle esercitare senza dare alcun adito al sospetto di volerle utilizzare in modo non imparziale. La vicenda della "magnadora" ha lasciato ombre che in nessun modo devono allungarsi su queste nuove, delicatissime prerogative dell'autonomia.
Onestamente, non so dire se il successo della nostra trattativa parlamentare (in parallelo con quella istituzionale condotta dalle due giunte provinciali) sarebbe stato altrettanto pieno, senza il verificarsi di due eventi: la recente sentenza della Corte costituzionale, che ha bocciato l'interpretazione estensiva, da parte del governo, della norma sulla cosiddetta "riserva all'erario" (in pratica la possibilità di violare il vincolo dei 9/10 delle entrate fiscali in presenza di un'emergenza nazionale); e la scissione del Pdl, con l'uscita di Forza Italia dalla maggioranza, che ha reso molto più elevata, per così dire, "l'utilità marginale" dei senatori del Trentino Alto Adige.
L'approvazione da parte del Senato, col voto di fiducia, della (prima lettura della) legge di stabilità, ha in effetti segnato una svolta politica nella legislatura. La scissione che si era consumata nel Pdl (pur unito nella difesa di Berlusconi contro la decadenza da senatore), tra quanti, come Alfano e gli altri ministri di centrodestra, condividono il principio della neutralità del governo rispetto alla vicenda giudiziaria del Cavaliere, e quanti invece, a cominciare dallo stesso Berlusconi, quel principio contestano duramente, ha dato vita a due forze politiche distinte: il Nuovo centrodestra (Ncd) di Alfano e Forza Italia, di nuovo guidata da Berlusconi.
Nella notte tra martedì 26 e mercoledì 27 novembre, Forza Italia non ha votato la fiducia al governo sulla legge di stabilità. È quindi uscita dalla maggioranza, portandosi dietro circa due terzi del gruppo del fu-Pdl e, insieme a loro, le cosiddette "larghe intese", che ormai non ci sono più. Vedremo in che modo la farà, con quanta conflittualità e quanta responsabilità, ma da martedì scorso Forza Italia sta già facendo l'opposizione.
E tuttavia, una maggioranza c'è ancora ed è anche relativamente consistente. La fiducia a Letta è stata infatti votata da 171 senatori, dieci in più della maggioranza assoluta, 7 al netto dei 3 senatori a vita (gli altri due, Abbado e Piano, non erano presenti e quindi non hanno votato). Non c'è da scialare, ma nel 2006-2008 (secondo governo Prodi), stavamo molto peggio. Oltretutto, mentre allora l'opposizione era un monolite di centrodestra, oggi la situazione è molto più articolata: Forza Italia deve dividere il suo ruolo di oppositore con il Movimento Cinquestelle e con Sel di Nichi Vendola.
Sul piano numerico dunque, le condizioni per andare avanti, per il governo Letta, ci sono. Resta da vedere se ci sono le condizioni politiche. Lo sapremo dopo l'8 dicembre, cioè dopo l'elezione del nuovo segretario nazionale del Pd. Per quanto mi riguarda, condivido la linea di Matteo Renzi (che anche per questo voterò alle primarie di domenica prossima): il governo Letta deve andare avanti, ma bisogna utilizzare l'uscita di Forza Italia dalla maggioranza per far compiere un salto di qualità e di coraggio riformista ad un governo che fin qui non ha affatto brillato ed è in caduta libera nel consenso popolare.
Mercoledì 27 novembre, la lunga seduta del Senato, cominciata alle 9,30 del mattino, si chiude alle 17,43 con le parole del presidente Grasso: "Si intendono approvate le conclusioni della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, nel senso di dichiarare la mancata convalida dell'elezione del senatore Silvio Berlusconi".
La "mancata convalida" significa che Berlusconi non è più senatore: dopo la conferma da parte della Cassazione della condanna per frode fiscale, ha perso i requisiti di eleggibilità, in forza della legge Severino, detta legge "anticorruzione", perché stabilisce che gli eletti decadono se condannati in via definitiva. Per tutte le altre cariche elettive, la decadenza è automatica, nel caso dei parlamentari, in forza dell'articolo 66 della Costituzione, è invece subordinata ad un voto della Camera di appartenenza.
La "sentenza" di Grasso è stata accolta dall'aula in silenzio. Non ci sono state né proteste, né applausi. Per una volta, il Senato è stato all'altezza del compito che doveva svolgere. Lo ha fatto con compostezza, misura, dignità. Mi sono sentito rappresentato da quel comportamento collettivo: stavamo applicando una norma, giustamente severa. E quando ci si inchina alla potestà della legge, lo si fa "sine ira ac studio", senza lasciarsi andare né all'ira né agli affetti. Lo si fa semplicemente perché è il proprio dovere.
A poche centinaia di metri da Palazzo Madama, davanti a Palazzo Grazioli, Berlusconi ha radunato i suoi per l'estrema protesta. Ma non c'è la folla di altre occasioni e tra i presenti c'è più rassegnazione che rabbia. Gli italiani, anche quelli che votano centrodestra, vogliono girare pagina.