Nov
19
2013
Renzi vince, vuol dire che si è imparato dagli errori
Pubblicato sul quotidiano Europa

Dunque, direbbe Karl Raymund Popper, dal voto dei congressi di circolo del Partito democratico, è uscita corroborata l’ipotesi, di per sé sempre falsificabile, che noi iscritti al Partito democratico apparteniamo alla specie “homo sapiens” e non a quella del moscone comune.

Ciò che distingue l’uomo dal moscone, che cercando di uscire da una finestra sbatte contro il vetro fino a morirne, secondo il grande filosofo della società aperta, è infatti la capacità di imparare dai propri errori. Ebbene, la bella e tutt’altro che scontata vittoria di Matteo Renzi dimostra che il Pd sa e vuole imparare dai suoi errori.

Se infatti il sindaco di Firenze ha vinto nettamente il primo round della competizione per la segreteria del Pd, è perché è l’unico dei quattro candidati che ha posto con chiarezza, alla base della sua proposta al partito, una impietosa analisi della sconfitta del centrosinistra alle elezioni politiche del febbraio scorso. Abbiamo perso, ha detto e ripetuto Renzi, perché invece di andare a conquistare i voti degli italiani, mai stati così liberi e mobili dal 1994 ad oggi, ci siamo chiusi nelle roccaforti tradizionali del nostro consenso.

Finendo per perdere anche buona parte degli elettori che avevamo considerato sicuri.

Nell’anno in cui quella che era stata l’Invencible Armada berlusconiana perdeva metà dei voti presi nel 2008, non solo noi non siamo riusciti ad intercettarne nemmeno uno, ma abbiamo lasciato sul tappeto un quarto dei voti di Veltroni. Piuttosto che votare noi, gli elettori di centrodestra delusi da Berlusconi e quelli di centrosinistra delusi dal tandem Bersani-Vendola, hanno preferito chi l’astensione, chi le Cinque Stelle di Grillo, chi la Scelta Civica di Monti.
Le elezioni ci hanno quindi consegnato, non solo un parlamento senza maggioranza, obbligato a faticose e innaturali “larghe intese”, ma una struttura dei nostri consensi fragile e paradossale.

Renzi lo ha detto e ripetuto fino a farne un cavallo di battaglia elettorale: siamo contenti e orgogliosi di essere il primo partito tra dipendenti pubblici e pensionati, ma ci turba e ci umilia essere il secondo, dopo i grillini, tra gli studenti, e addirittura il terzo partito, dopo PdL e M5S, tra operai e artigiani, agricoltori e commercianti, professionisti e imprenditori.

Un partito così non può né vincere, né governare, né tanto meno proporsi come il principale protagonista di quel ciclo di governo riformista che l’Italia non ha mai conosciuto e di cui ha un enorme, drammatico, urgente bisogno.

Gli “homo democraticus” hanno capito e apprezzato, consegnando a Renzi un ottimo 46,7 per cento dei consensi, contro il 38,4 di Cuperlo (mentre Civati e Pittella sono rimasti sotto il 10), in pratica ribaltando (per quel poco che possono valere questi raffronti tra grandezze certo disomogenee) le percentuali del primo turno delle primarie del centrosinistra del novembre 2012, quando Bersani era arrivato primo col 44,9 lasciando Renzi al 35,5. E soprattutto, “falsificando” (in un modo che Popper giudicherebbe inoppugnabile) la teoria a lungo coltivata secondo la quale Renzi sarebbe un corpo estraneo al partito, addirittura una quinta colonna del berlusconismo, e come tale sarebbe stato trattato da iscritti e militanti del Pd.
Le buone notizie, per oggi, finiscono qui.

E dopo le luci è inevitabile e giusto fare i conti anche con le ombre. La principale delle quali è la caduta, si badi bene, non dei votanti tra gli iscritti, ma degli iscritti tout court. Se sarà eletto segretario l’8 dicembre prossimo, Renzi erediterà dai suoi predecessori un partito vivo e democratico, ma (con buona pace dello slogan che non ha portato fortuna a Cuperlo) non molto bello, certamente stanco, in molte parti sfibrato da un correntismo senz’anima.

Renzi dovrà invertire questa tendenza al declino, organizzativo e perfino etico, oltre che elettorale, dei democratici. E dovrà farlo, con l’aiuto di tutti, già l’8 dicembre, rimotivando al voto aree che si sono allontanate. E poi, dopo l’8, cercando di “ingegnerizzare”, di trasformare cioè in un modello organizzativo vivibile e creativamente riproducibile in tutta Italia, la splendida intuizione del partito aperto, degli elettori, delle primarie.
Sarà un lavoro immane, pari nella sua difficoltà, solo a quello di costruire una proposta per il paese, incalzando da subito, sul terreno delle riforme per la democrazia, la crescita, il lavoro, l’uguaglianza sociale, il governo Letta.

E in prospettiva, una prospettiva di medio e non di breve termine, come Renzi ha giustamente spiegato, costruendo attorno a questa proposta le condizioni per vincere e poi per governare con un forte profilo riformatore.
Si tratta, come è evidente, di due facce della stessa medaglia: il programma di governo e il profilo del partito.

Del resto, non c’è grande paese democratico, almeno in Europa, nel quale queste due dimensioni non procedano di pari passo, integrandosi e completandosi a vicenda, portate avanti dal medesimo leader. Forse è anche perché è stato il solo a difendere l’intuizione originaria del Pd a vocazione maggioritaria, fondato sulla coincidenza tra leader e candidato premier, che Renzi si è aggiudicato questo primo round. Noi democratici, che non siamo mosconi, abbiamo capito che è questa la via maestra per valorizzare il partito: farne il principale strumento per il cambiamento del paese.

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