Nov
11
2013
La Cancellieri si difende
Pubblicato su www.lavalsugana.it

Il caso Cancellieri che arriva in Senato; il bilancio (preventivo 2013, a novembre!) delle due Camere e poi la legge di stabilità che entra nel vivo: questi i principali argomenti della scorsa settimana parlamentare.

Per me la settimana romana è cominciata lunedì 4 novembre pomeriggio, con una riunione della presidenza del gruppo Pd. All'ordine del giorno, il caso Cancellieri e il bilancio del Senato. Sulla prima questione, il capogruppo, Luigi Zanda, comunica che la Cancellieri verrà martedì 5 pomeriggio a riferire all'Aula. Il formato della riunione sarà quello della "informativa urgente" da parte del Governo, che prevede, dopo la relazione del ministro, solo un intervento di 5 minuti per gruppo, senza voto. La mozione di sfiducia individuale, presentata dal M5S, verrà quindi discussa e votata in altra data, presumibilmente dopo la sessione di bilancio e il voto su Berlusconi.

Sul bilancio del Senato, la proposta approvata dai questori (modo pomposo di definire i tre senatori "amministratori" di Palazzo Madama) e poi dall'Ufficio di presidenza, è dignitosa ma tutt'altro che coraggiosa. Su un bilancio di più di 500 milioni al Senato (e di più di 1 miliardo alla Camera), i tagli sono minimi.

Certo, fino a ieri, ogni anno la spesa cresceva, ora non solo non cresce, ma si riduce: Senato e Camera restituiranno qualche milione allo Stato. Certo, stiamo parlando di cifre modeste: il Parlamento costa al Paese un decimo di punto di PIL, un cinquecentesimo della spesa pubblica complessiva. Ma come possiamo pensare di tagliare in modo significativo la spesa dello Stato, per ridurre così la pressione fiscale, il peso eccessivo, ormai quasi insostenibile, che grava sulle spalle del lavoro e dell'impresa, se noi parlamentari non riusciamo a ridurre in modo sensibile neppure la spesa di funzionamento dei nostri uffici, dei due rami del Parlamento?

Oltretutto, la spesa per i senatori (indennità e rimborsi spese) è ormai una parte minoritaria del bilancio del Senato. Il grosso se ne va per strapagare un piccolo esercito di dipendenti, mediamente bravi, ma eccesivamente privilegiati; per pagare vitalizi a ex-senatori ed ex-dipendenti (ora, grazie alla Fornero, sia per gli uni che per gli altri è stato introdotto il regime contributivo uguale agli altri lavoratori, ma come per il sistema pensionistico generale c'è un enorme pregresso da smaltire); e infine per la gestione delle sedi nel centro di Roma, troppe e troppo costose.

Esco dalla riunione ancora più convinto che l'unica via per ridurre in modo significativo i costi del Parlamento è quella di abbattere in modo drastico il numero dei parlamentari e di concentrare il taglio in una camera, il Senato, trasformandolo nel Bundesrat italiano: basta senatori eletti, al loro posto i presidenti delle regioni e i sindaci delle città metropolitane. Aggiungendo alla riforma del Senato la riduzione dei deputati dagli attuali 630 a 500, avremmo il dimezzamento dei parlamentari.

E nel giro di qualche anno, anche i costi della macchina, almeno a Palazzo Madama, potrebbero essere fortemente ridimensionati: non servirebbero più i tanti palazzi oggi utilizzati per ospitare gli uffici di 300 senatori, le sedi storiche di Palazzo Madama, Carpegna e Giustiniani sarebbero più che sufficienti. E, anche aumentando le sinergie con la Camera, i dipendenti potrebbero calare drasticamente, nel giro di qualche anno, senza licenziare nessuno.

Ma le resistenze interne a questo cambiamento sono formidabili. E si concentrano, prima e più che presso i senatori, nell'apparato amministrativo, che esercita una funzione perversa, di blocco conservatore, presso gli stessi senatori. Ma non c'è nessuna ragione al mondo per conservare lo status quo. Ce ne sono invece molte per cambiare radicalmente. Di qui al 2020, ridurre ad un miliardo, rispetto al miliardo e mezzo attuale, il costo del Parlamento, è assolutamente possibile. E senza ridurre la funzionalità dell'istituzione più importante della nostra Repubblica, che anzi avrebbe a guadagnarne, in efficienza e prestigio.

Martedì 5 novembre mattina sono andato all'Università, più precisamente alla facoltà di Scienze politiche della Sapienza, quella nella quale insegnavano Moro e Bachelet, a pochi metri dalla facoltà di Lettere e Filosofia, nella quale negli anni in cui quei due maestri furono uccisi dalla follia brigatista, ho studiato, mi sono impegnato nella FUCI e mi sono poi laureato.

Ho tenuto una lezione, presso il corso di diritto parlamentare del mio vecchio amico ed ex-collega senatore, il prof. Stefano Ceccanti, sul ruolo crescente della legislazione europea nell'attività legislativa del Parlamento italiano. Spero che la mia lezione sia stata utile agli studenti, per me è stata un'esperienza molto gratificante. Potete trovare la sintesi, curata dagli studenti, nella rubrica "Interventi" del mio sito www.giorgiotonini.it.

Dopo la lezione all'Università, martedì sono andato, insieme ad Enrico Morando, ad un pranzo di lavoro alla sede dell'Associazione tra le banche popolari. Oggetto della discussione, il rapporto tra sistema bancario e sistema produttivo, a partire dalle tesi esposte nel libro, scritto da noi due, "L'Italia dei Democratici" (prefazione di Matteo Renzi, editore Marsilio).

Nel pomeriggio, in Aula c'è la ministra della giustizia, Anna Maria Cancellieri, che riferisce sulla vicenda che l'ha vista protagonista, quella dei suoi rapporti con la famiglia Ligresti. La ricostruzione dei fatti, da parte della ministra, è completa e onesta. Cancellieri ammette l'inopportunità della sua affettuosa telefonata alla compagna di Ligresti, intercettata e resa pubblica. Ma rivendica di non aver compiuto nessun atto che abbia in qualche modo favorito i Ligresti nel loro rapporto con la giustizia.

Anche il suo interessamento per le condizioni di salute di Giulia Ligresti, poi riconosciute incompatibili con la detenzione in carcere, ha sostenuto con vigore la Cancellieri, non ha mai travalicato i limiti della correttezza, come hanno riconosciuto i magistrati competenti, a cominciare dal procuratore di Torino, Gian Carlo Caselli.

Ho applaudito, insieme ai colleghi del Pd e degli altri gruppi di maggioranza, l'intervento della ministra, appunto per la sua trasparenza e onestà. E mi sono riconosciuto nelle parole di Zanda, intervenuto a nome del gruppo: il percorso professionale della Cancellieri, ha detto il presidente dei senatori democratici, è stato irreprensibile e una persona ha diritto di essere giudicata non solo su un episodio, ma guardando all'insieme della sua carriera; la telefonata con casa Ligresti resta un fatto gravemente inopportuno; l'interessamento per Giulia Ligresti, motivato da ragioni umanitarie, si è invece manifestato in forme istituzionalmente corrette.

La Cancellieri, martedì scorso, ha superato il primo esame parlamentare. Ma il caso non è chiuso. E anche in me resta il dubbio circa l'opportunità per la ministra di restare al suo posto, dopo quella sciagurata telefonata, che ha manifestato una vicinanza, certo non priva di risvolti imbarazzanti, con la famiglia Ligresti. La politica deve darsi e rispettare regole più severe del codice penale. Anche dove non c'è un reato, ci può essere un impedimento a ricoprire un ufficio pubblico, motivato da ragioni di opportunità. A quel punto, il passo indietro è doveroso.

Mercoledì sera alla Camera si è tenuta un'assemblea dei parlamentari del Pd (quasi 400) con Enrico Letta. All'ordine del giorno, la legge di stabilità. Ne sono uscito rafforzato nel mio giudizio critico sulla politica economica del governo. In sostanza, questa è una legge di stabilità che registra il successo della terapia Monti nel riportare sotto controllo i conti pubblici, dopo la crisi del 2011. Siamo e restiamo entro il limite del 3 per cento, nel rapporto deficit-PIL, quindi dentro i parametri europei.

Ma per passare alla fase nuova, quella che mette al centro dell'azione di governo la crescita, dovremo aspettare ancora. Perché il governo non è stato in grado di presentarsi in Parlamento con un piano di tagli incisivi della spesa, che a sua volta finanziasse un piano di significativa riduzione della pressione fiscale sul lavoro e sull'impresa, vera e ormai insostenibile anomalia italiana in Europa.

Sarà dunque una legge di stabilità di transizione. Le larghe intese formato Letta, al contrario di quelle formato Monti, non sono riuscite ad andare oltre la ordinaria manutenzione dei conti. Per le riforme, finalizzate alla crescita, ci vuole un altro governo, un governo politico, un governo del Pd figlio di una vittoria elettorale piena. Naturalmente, se avremo un Pd adatto allo scopo.

È quello che ho detto venerdì 8 sera a Livorno, in un dibattito pubblico a partire dal solito libro che ho scritto insieme a Morando. Ed è quello che ho ripetuto sabato mattina a Mori, esponendo al locale circolo democratico le ragioni per le quali, secondo me, è nell'interesse del Pd, e soprattutto del Paese, sostenere la candidatura di Matteo Renzi alla segreteria del partito.

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