È stata una settimana storica, quella che si è chiusa venerdì pomeriggio, con la decisione della Giunta per le elezioni del Senato di chiedere all'Assemblea di Palazzo Madama di dichiarare Silvio Berlusconi decaduto dalla carica di senatore. Una decisione attesa, per non dire scontata, ma che viene a cadere in un quadro politico molto diverso da quello di solo pochi giorni fa.
Nell'estremo, disperato tentativo di impedire il voto sulla sua decadenza, Berlusconi aveva costretto prima tutti i parlamentari del Pdl e poi i ministri a dimettersi: un patetico e impotente, ma non per questo meno pericoloso, "muoia Sansone con tutti i filistei". Una mossa che tentava e rischiava di trascinare, nella caduta del vecchio leader, il Governo, il Parlamento, lo stesso presidente della Repubblica, con effetti devastanti per il Paese.
I due presidenti, Napolitano e Letta, avevano deciso di reagire a questo attacco forsennato con l'arma della chiarezza: il presidente del Consiglio si sarebbe presentato in Parlamento, prima in Senato e poi alla Camera; avrebbe tenuto un discorso chiaro, nel quale ricordare le ragioni che avevano imposto come unica soluzione possibile il governo di larghe intese; avrebbe tracciato il bilancio dei risultati ottenuti e l'agenda dei gravosi impegni ancora sul tavolo; e avrebbe chiesto a tutti i parlamentari di assumersi, davanti al Paese, la responsabilità di far andare avanti il Governo (e la legislatura, appena cominciata), o invece di decretarne la fine, gettando il paese nel gorgo dell'ingovernabilità.
Quando sono ridisceso a Roma, lunedì 30 settembre sera, l'incertezza regnava sovrana. Impossibile fare previsioni sull'esito del confronto parlamentare. Alla Camera infatti, Pd e Scelta civica sono ampiamente autosufficienti e i voti del Pdl non determinanti. Ma al Senato, senza il Pdl, non c'è maggioranza. Dunque, tutto dipendeva da cosa sarebbe maturato dentro il partito di Berlusconi: si sarebbero spaccati? o avrebbero invece seguito, più o meno compattamente, le decisioni del leader?
Neppure l'assemblea dei parlamentari del Pdl, convocata dal Cavaliere alla Camera lunedì sera, chiarisce davvero la situazione. Apparentemente si chiude con la ratifica unanime, per acclamazione, della decisione di Berlusconi di sfiduciare il Governo. Ma la protesta di Cicchitto, contro la decisione di non aprire il dibattito e di non mettere ai voti la proposta di Berlusconi, è la spia che qualcosa di grosso si sta muovendo dentro il Pdl.
E infatti, la giornata di martedì, la vigilia della verifica con voto di fiducia in aula, prevista al Senato per mercoledì 2 ottobre mattina, trascorre come sotto una doccia scozzese, col rincorrersi delle voci più disparate. Al mattino prevale il pessimismo: Berlusconi ha messo tutti a tacere, la rivolta dei colonnelli è stata soffocata. Al pomeriggio, quando si riunisce la presidenza del gruppo Pd di Palazzo Madama, stanno riprendendo quota le ipotesi più favorevoli al governo. Pare che i "ribelli" abbiano i numeri per formare un gruppo autonomo, ci dice Zanda, e dare a Letta la maggioranza in Senato.
Alla sera, all'auletta dei gruppi alla Camera (si chiama "auletta" perché è più piccola dell'Aula di Montecitorio, ma è in effetti un emiciclo da 3-400 posti) si riunisce l'assemblea dei parlamentari del Pd, deputati e senatori. Meno male che abbiamo deciso di farla qui, l'assemblea, penso entrando. Fu in quella sala infatti che prendemmo la decisione di votare Napolitano. Ricordo il "cinque" che ci scambiammo con Letta all'uscita della riunione: ce l'abbiamo fatta, ci dicemmo, a convincerlo. Veltroni è stato determinante, mi disse Enrico.
E meno male soprattutto che non abbiamo scelto l'altra di sala, quella del teatro Capranica, ormai indissolubilmente legata, nella mia memoria, allo scontro su Marini e poi al tragico voto, falsamente unanimistico, su Prodi...
Prevale l'ottimismo, negli animi di tutti e anche nelle parole di Guglielmo Epifani, che col suo discorso apre e chiude la riunione. Non è il caso di aprire il dibattito, anche se qualcuno, scherzando, chiede che almeno si faccia fare a Cicchitto l'intervento bloccato da Berlusconi la sera prima.
Ottimismo si, ma non esageriamo. C'è in tutti la consapevolezza che la notte è ancora lunga. E chissà cosa si inventa, stavolta, Berlusconi. Uno che non sarà un professionista della politica, ma non ha mai perso una conta, né in Parlamento (quelli che hanno pasticciato col pallottoliere siamo stati sempre noi...), né tanto meno nel suo partito.
Mercoledì mattina l'aula di Palazzo Madama è piena zeppa. Mentre Alfano e gli altri ministri del Pdl sono tutti attorno a Letta, vedo la Biancofiore, vestita di giallo, che prende posto non tra i banchi del governo, ma tra i senatori del Pdl. Quasi a marcare la distanza dall'esecutivo, di cui pure fa (faceva?) parte.
Dopo le "comunicazioni" di Letta, dall'ufficio stampa del gruppo mi chiedono di andare in sala stampa a commentarle alle tv. Il testo delle mie dichiarazioni viene poi mandato, in forma riassuntiva, alle agenzie:
"Il Presidente del Consiglio ha rivolto al Parlamento e alla coscienza di ogni singolo parlamentare un appello forte e serio. Forte il richiamo alla responsabilità dinanzi al Paese, che chiede da tempo una svolta politica, che lasci alle spalle la rissa, lo scontro, la demonizzazione reciproca, che producono solo instabilità, inerzia, impotenza di fronte ai gravi problemi degli italiani. Serio il riepilogo del grande lavoro svolto in questi pochi mesi e ancor più il programma del grande lavoro che attende il governo e il parlamento nel prossimo anno. Perché l'Italia è ferma e, così com'è organizzata oggi, non potrà ripartire: per la ripresa servono riforme, coraggiose e incisive, impossibili senza stabilità e coesione politica, senza la piena assunzione di una comune responsabilità, come chiede in modo instancabile, a tutte le forze politiche, il presidente Napolitano. Seria soprattutto l'indicazione delle condizioni indispensabili per dare solidità alla prospettiva della collaborazione: la netta separazione tra la vicenda giudiziaria del sen. Berlusconi e la vita e l'attività del governo; e il comune riconoscersi nella costruzione dell'Europa e nell'alveo delle grandi famiglie politiche europee ed europeiste".
Letta apre e chiude il suo intervento con due citazioni di due grandi "liberali": prende da Einaudi l'ammonimento a cogliere l'attimo, a non perdere l'appuntamento con la storia; da Croce l'invito a ciascuno a prendere in coscienza una decisione che non sia causa di rimorso futuro...
Si apre il dibattito e i banchi della destra si dividono platealmente tra colombe e falchi. Le colombe sono almeno 23: gira tra i banchi la fotocopia di una mozione di fiducia ("Il Senato, udite le comunicazioni del presidente del Consiglio, le approva"), firmata da, appunto, 23 senatori del Pdl. Sommati a Pd, Scelta civica e autonomisti, dovrebbero consentire a Letta di passare. Poi, con quei numeri, il Senato diventerà un Vietnam, scrivo in un sms a Veltroni che mi chiede notizie...
E invece... "è iscritto a parlare, in dichiarazione di voto, il senatore Silvio Berlusconi, ne ha facoltà". E il Cav, nella sorpresa generale, annuncia il voto favorevole alla fiducia. Letta è salvo, la scissione del Pdl quanto meno rinviata, si apre invece la discussione sul significato politico della scelta di Berlusconi e, più in generale, del voto in Senato.
A me sembra chiaro che Berlusconi ha deciso di votare la fiducia per contenere i danni e per attutire il colpo di quella che resta comunque una sua gravissima sconfitta: ha minacciato di far saltare governo, legislatura e Quirinale. E l'unica cosa che è saltata è invece la sua leadership assoluta nel Pdl. Come i re dell'Ottocento, Berlusconi ha dovuto rinunciare al potere assoluto, per cercare di conservare almeno il trono di un monarca costituzionale, che regna ma non governa.
La mossa di Berlusconi ha impedito che nascesse una "nuova maggioranza", diversa anche nei numeri e nei rapporti di forza politici. Ma non ha potuto impedire che emergesse una "maggioranza nuova", cioè diversa, non nei numeri o nella geografia parlamentare, ma nella sostanza politica. Perché il Pdl non è più lo stesso dopo la clamorosa vittoria delle colombe sui falchi.
Il voto di fiducia al governo Letta ha segnalato l'ormai evidente incompatibilità tra un'idea di centrodestra che potremmo definire di stampo popolare europeo e una di stampo invece populista ed euroscettico, se non addirittura antieuropeo. Difficile dire, al momento, se l'esito di questo chiarimento politico sarà quello di una scissione e della costituzione, da parte di Alfano e dei suoi, di un partito medio-piccolo di centrodestra, sulle orme dell'esperienza dell'Udc, o invece quella di una "deberlusconizzazione" del Pdl, per riportarlo a pieno titolo nella famiglia del Ppe.
Da osservatore esterno, faccio il tifo per la seconda ipotesi. Mi sembra più rispondente ad un esito positivo della lunga transizione italiana: verso una compiuta democrazia dell'alternanza, basata su grandi forze politiche di stampo europeo, e non verso una nuova fase di frammentazione e di democrazia bloccata.
Ma la maggioranza è "nuova" perché è cambiato anche il rapporto tra il Pd e il governo. Quello che prima era un rapporto all'insegna della necessità, nelle parole di Enrico Letta è diventato un po' di più un rapporto vissuto come un'opportunità, per il Paese e per lo stesso Partito democratico. A condizione che il governo, come dice Matteo Renzi, faccia e faccia bene, non si limiti a durare in nome di una stabilità fine a se stessa, ma affronti con piglio riformatore i grandi problemi che l'Italia ha di fronte.