Sep
22
2013
L'Afghanistan, l'Iva e Berlusconi
Pubblicato sul magazine online www.lavalsugana.it

Nell'ultima puntata di PALAZZOMADAMA, prima della pausa di agosto, scrivevo che le principali questioni che l'anno parlamentare che si chiude lascia in eredità all'anno che segue sono tre: la vera e propria emergenza crescita economica, in un'Italia ancora alle prese con una gravissima recessione; il tema riforma elettorale e riforme costituzionali, tanto più ineludibile se si vuole tornare presto al voto; e la questione stabilità di governo, strettamente dipendente dallo stato di salute dei partiti che lo sostengono.

Nelle prime due settimane parlamentari di settembre, si deve dire che nel complesso non si sono fatti molti passi avanti, semmai se ne deve registrare qualcuno indietro.

Forse l'unico progresso riguarda le riforme elettorali e costituzionali, con l'approvazione, pressoché all'unanimità, di un buon documento unitario da parte dei "saggi" nominati dal governo. La soluzione largamente condivisa è risultata quella del premierato (e non il semipresidenzialismo), ovvero il rafforzamento della figura del Presidente del Consiglio, accompagnata dal superamento del bicameralismo e da una incisiva riforma del "Porcellum", che prevede l'assegnazione del premio di maggioranza solo alla coalizione che, al primo o al secondo turno, superi il 50 per cento, e la selezione dei parlamentari in piccole circoscrizioni o in collegi uninominali.

La proposta è nell'insieme saggia, perché garantisce in modo equilibrato sia la governabilità che la relazione tra elettori ed eletti, ed è importante che su di essa si siano riconosciuti costituzionalisti vicini al centrodestra come al centrosinistra. Vedremo se il parlamento riuscirà a tradurla in norme. Magari accantonando la (inutile) modifica della procedura di revisione costituzionale, contro la quale i grillini sono arrivati a salire (in modo ugualmente inutile) sui tetti di Montecitorio. Invece di litigare (inutilmente) sulla procedura, sarebbe meglio discutere della sostanza delle riforme, utilizzando la falsariga proposta dai saggi.

Nessun passo avanti, ma semmai qualcuno indietro, ha fatto invece registrare, in seno alla maggioranza e al governo, la questione economica. L'accordo di fine agosto sull'Imu ha presto mostrato tutta la sua fragilità: le coperture alternative sono al momento assai incerte; sembra in ogni caso impossibile cumulare l'abolizione per tutti dell'Imu prima casa con il mantenimento dell'aliquota dell'Iva al 21%, evitando l'aumento al 22; la ulteriore contrazione del PIL rischia di provocare lo sfondamento del tetto del 3% di deficit, riportando l'Italia dentro la procedura di infrazione, e in sostanza azzerando i benefìci prodotti, almeno sul piano del risanamento finanziario, dal governo Monti.

Insomma, l'incertezza regna sovrana: e non potrebbe esserci modo peggiore di accingersi alla "sessione di bilancio", che tradizionalmente è la principale occupazione dei lavori parlamentari nei mesi autunnali. Anche perché, da parte del Pdl (appena ribattezzato da Berlusconi Forza Italia), le questioni economiche sono viste non come una sfida per il Paese, alla quale governo e maggioranza devono rispondere cercando con responsabilità, concordia e pragmatismo le soluzioni migliori, ma come il terreno ideale per un'azione propagandistica, quasi fossimo ancora (o già...) in campagna elettorale.

Dietro i "capricci" quotidiani di Renato Brunetta ("o si toglie l'Imu, o facciamo cadere il governo", "se aumenta l'Iva il governo non c'è più"...) e dietro le spacconate fascisteggianti di Maurizio Gasparri, contro il commissario europeo Olli Rehn ("prenda il primo aereo e se ne vada - gli ha urlato contro il... vicepresidente del Senato! - perché è persona non gradita in Italia"), che in Parlamento ha richiamato il nostro Paese al rispetto degli impegni presi (tra i quali oltre a non superare il 3% di deficit, c'è la priorità della riduzione delle tasse su lavoro e impresa e non sul patrimonio, come l'Imu), ci sono l'idea e il messaggio, del tutto irresponsabili, che si possano ridurre le tasse, non tagliando le spese, ma semplicemente facendo altro debito e fregandocene degli impegni europei.

Su questa strada si può solo andare a sbattere. Non a caso il ministro dell'Economia, ex numero due di Bankitalia, ha cominciato a parlare di sue possibili dimissioni. Sarebbe la fine del governo delle larghe intese. Sarebbe soprattutto la certificazione che la "Grosse Koalition" all'italiana non serve per affrontare insieme problemi tanto gravi che nessuno può affrontare da solo, ma a sommare le rispettive demagogie, raddoppiando il costo che la cattiva politica impone ad un Paese esausto e disorientato.

Sul versante Forza Italia, l'estremizzazione del suo posizionamento sulla politica economica sembra rispondere più che altro all'esigenza di reagire in modo aggressivo al durissimo colpo, anche psicologico, subìto con la condanna definitiva di Berlusconi e la prospettiva certa della sua decadenza da senatore e dell'altrettanto certa impercorribilità della via della grazia presidenziale.

Non potendo chiamare a raccolta militanti ed elettori direttamente contro il governo, perché in questo modo il partito del Cavaliere finirebbe per vedersi addossata la responsabilità di una nuova fase di instabilità, Berlusconi ha scelto di giocare di sponda: destabilizzando ugualmente il governo, ma non in via diretta, come rappresaglia per la condanna subìta e la pretesa "mancanza di solidarietà" da parte del Pd e di Napolitano, ma in modo indiretto, lanciando una populistica crociata anti-tasse e anti-giustizia, argomenti entrambi sui quali sa di poter incontrare il favore, almeno potenziale, di una vasta parte della società italiana.

Resta il fatto che così non è possibile andare avanti. Il Pd dovrebbe riuscire a dirlo in modo compatto e unitario. Non dividendosi in modo assurdo tra "governisti" e "destabilizzatori": quasi si potesse essere col governo (un governo messo così!) "a prescindere", o si potesse invece ignorare il valore della stabilità, naturalmente non fine a se stessa, ma come premessa per un programma di riforme, in continuità con il cammino difficile ma necessario percorso dal governo Monti.

La responsabilità di riuscire in questo che sarebbe un vero capolavoro è sulle spalle di due giovani leader, Enrico Letta e Matteo Renzi. Se sapranno lavorare insieme, potranno diventare quel punto di riferimento che la società italiana sta cercando, e che è invocato anche dai nostri partner europei. Se invece il congresso del Pd si ridurrà ad un cruento regolamento di conti interno, anche noi democratici finiremo per far parte del problema italiano e non della sua soluzione.

Il 12 e 13 settembre sono stato in Afghanistan, a Kabul e a Herat, insieme ad una delegazione parlamentare italiana (tre senatori e altrettanti deputati, in rappresentanza di tutti i gruppi), guidata dal viceministro degli Esteri, Lapo Pistelli. Ho toccato con mano lo straordinario valore dei nostri concittadini impegnati in una condizione così estrema, nella quale ogni giorno è la vita stessa ad essere messa in gioco: si tratti dei volontari di Emergency o dei carabinieri paracadutisti del Tuscania, dei funzionari della cooperazione italiana o dei diplomatici.

Il loro lavoro assomiglia a quello di svuotare il mare con un secchiello, nel paese più povero e violento del mondo. Eppure si moltiplicano i segni di speranza. In particolare sul versante, davvero decisivo, della condizione della donna. Un terzo dei parlamentari sono donne (più che in Italia): ne abbiamo incontrato una delegazione, assolutamente autorevole e decisamente combattiva. È una donna il procuratore generale di Herat, che ha voluto istituire (con l'aiuto italiano) un carcere femminile: prima le donne accusate di qualcosa venivano lapidate. Sono milioni le bambine che vanno a scuola ogni mattina, rischiando la vita: frequente è il caso di bambine trasformate in kamikaze inconsapevoli, da parte di talebani che nascondono una bomba nel loro zainetto...

Entro la fine del 2014 ritireremo il grosso delle truppe (oggi circa tremila soldati), ma non abbandoneremo l'Afghanistan. Su richiesta delle autorità locali, resteremo lì, per addestrare i loro militari e i loro poliziotti. E aumenteremo lo sforzo, finanziario ed umano, della nostra cooperazione civile. Perché è giusto farlo. E perché serve anche a noi, a guardarci allo specchio, attraverso gli occhi di quell'umanità sofferente.

Il 13 settembre, a Herat, la città capoluogo della regione affidata al controllo dei militari italiani, siamo stati svegliati all'alba da un'esplosione: a circa un chilometro di distanza da noi, un'autobomba si era lanciata contro il muro di cinta del consolato americano. Poi un commando terrorista era entrato attraverso la breccia aperta dall'esplosione, prima di essere annientato dal corpo di guardia. Una decina, tra terroristi e poliziotti afghani, sono rimasti sul terreno.

Noi eravamo ospitati nel "compound" (un complesso fortificato di palazzine adibite ad uffici e spartanissimi alloggi) della cooperazione italiana. La nostra scorta (i carabinieri parà del Tuscania) e i civili della cooperazione erano più preoccupati di noi. Quello che per noi era un rumore in lontananza, per loro era un altro colpo schivato. Poteva succedere a noi, ci hanno detto. Il prossimo colpo, domani o fra un anno, potrebbe essere per noi.

Ci hanno riaccompagnato, a bordo delle Toyota blindate e con gli elicotteri Mangusta che volteggiavano sulle nostre teste, alla base militare e al C130 che doveva riportarci a Kabul. Ma loro restavano lì, militari e civili, ugualmente esposti, ugualmente convinti di fare la cosa giusta. Un'Italia straordinaria, commovente, ammirata, della quale non si può non essere orgogliosi. Della quale dovremmo cercare di essere degni.

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