"Comprendiamo, ma non condividiamo": così, mezzo secolo fa, Aldo Moro aveva riassunto la posizione del governo italiano dinanzi all'intervento americano in Vietnam. Più o meno le stesse parole ha usato nei giorni scorsi, al G20 di San Pietroburgo, Enrico Letta, per spiegare la posizione del governo italiano rispetto al possibile intervento americano in Siria. Sia Moro che Letta avevano come interlocutore un grande presidente democratico: Lyndon Johnson cinquant'anni fa, Barack Obama oggi. Nessuno dei due, né l'erede di John F. Kennedy, né il discepolo di Martin Luther King, Premio Nobel per la Pace, era o è un guerrafondaio. Ma entrambi erano-sono convinti di non poter restare con le mani in mano, di doversi assumere la tragica responsabilità di mettere sul tavolo la forza militare degli Stati Uniti d'America. Perché, altrimenti, "il mondo diventerebbe ancora peggiore".
Noi comprendiamo il punto di vista degli americani, il punto di vista del presidente Obama, ha detto Letta con le parole di Moro. Perché è vero che Bashar al-Assad, non solo è (da sempre) un dittatore, feroce e senza scrupoli, ma è un capo di stato che si è macchiato di orrendi crimini contro l'umanità, usando l'esercito, le armi pesanti, l'aviazione, forse armi di distruzione di massa come le armi chimiche, contro il suo stesso popolo. E la comunità internazionale ha la precisa "responsabilità di proteggere" i popoli contro i crimini dei tiranni. Non può voltarsi dall'altra parte, senza diventare complice, per omissione di soccorso, di quei crimini orrendi.
Noi comprendiamo anche l'indignazione di Barack Obama: contro la Russia, la Cina, le altre grandi potenze emergenti, che sembrano indifferenti a qualunque dimensione etica della politica internazionale. Il loro interesse nazionale, sembra essere l'unica, esclusiva bussola che orienta la loro azione sullo scacchiere mondiale. Capovolgendo la dottrina Bush dell'unilateralismo e della guerra preventiva, Obama aveva fatto del multilateralismo la sua bandiera. Mai più l'America da sola, aveva detto, perché i problemi del mondo devono essere affrontati insieme: all'Onu, che Bush voleva chiudere e Obama ha invece rilanciato; e nel G20, un consesso ben più vasto e rappresentativo dell'asfittico G7, ormai archiviato. Ma sia in sede Onu che in sede G20, Obama si è scontrato col cinismo da Realpolitik, in particolare di cinesi e russi, per i quali il principio più sacro è quello di non ingerenza negli affari interni di un paese sovrano: il contrario, la negazione della responsabilità di proteggere, in nome del primato dei diritti umani sulla sovranità degli stati. Il multilateralismo sta così rischiando di tornare sinonimo di paralisi da veti incrociati.
A questo gioco non ci sto, ha detto in sostanza Obama. Perché sarebbe la fine dell'idea stessa di comunità internazionale, in favore dell'ennesima variazione sul tema ottocentesco del concerto degli Stati. Col vostro cinismo mi costringete a fare da solo. Con chi ci sta. Anche rischiando l'isolamento: nella comunità internazionale, perfino in Occidente, negli stessi Stati Uniti, un paese affaticato dalla crisi, stanco di perdere soldati in Medio Oriente, tentato da un nuovo isolazionismo.
Comprendiamo tutto questo, noi italiani, non possiamo non comprenderlo. Ma non riusciamo ugualmente a condividere la scelta di intervenire nella sanguinosa, atroce guerra civile siriana con altre bombe, altri missili, altro dolore, altri morti. È vero, in Bosnia Clinton spezzò l'assedio della povera Sarajevo bombardando le truppe serbe. Fu un felice uso limitato della forza al servizio di una politica di pace. Anche se ci volle il drammatico bombardamento di Belgrado a protezione del Kosovo, per imporre la svolta definitiva nella ex-Jugoslavia. Ma è possibile ripetere quello schema nella Siria di oggi? A noi non sembra. Come ha detto il ministro degli Esteri, Emma Bonino, in un'audizione alle commissioni Esteri di Camera e Senato, per quello che conosciamo della situazione sul terreno, a noi non sembra possa esistere una soluzione militare della crisi siriana. A noi sembra che possa esserci solo una soluzione politica, la premessa della quale è riunire attorno ad un tavolo, allestito dall'Onu, tutte le parti: quelle interne alla Siria (gli alawiti di Assad, le diverse anime sunnite, i cristiani...) e quelle esterne, dall'Iran alla Turchia, dall'Arabia Saudita a Israele. E naturalmente Stati Uniti, Russia, Europa, Cina.
Come ha chiesto, con parole inequivoche, il documento politicamente più lucido reso pubblico in questi giorni: la lettera di Papa Francesco al presidente russo Vladimir Putin, nella sua veste di presidente del G20. Una lettera nella quale Bergoglio non si limita a chiedere agli americani di "abbandonare ogni vana pretesa di una soluzione militare". Perché "l'inutile massacro" è già in atto, da troppo tempo, nell'inerzia e indifferenza dei più. Molto più concretamente e impegnativamente, il Papa chiede a tutti i leader del G20 (si direbbe a cominciare da Putin, che è il primo destinatario della lettera), di non rimanere inerti "di fronte ai drammi che vive già da troppo tempo la cara popolazione siriana e che rischiano di portare nuove sofferenze ad una regione tanto provata e bisognosa di pace" e di mettere in campo "un nuovo impegno a perseguire, con coraggio e determinazione, una soluzione pacifica attraverso il dialogo e il negoziato tra le parti interessate con il sostegno concorde della comunità internazionale".
Letta ha citato espressamente il messaggio di Papa Francesco, facendolo proprio. L'Italia opererà in questo senso, sembrerebbe insieme a tutta l'Europa. Aldo Moro non riuscì a fermare la guerra in Vietnam. Speriamo, preghiamo e operiamo perché Enrico Letta abbia miglior fortuna del suo grande predecessore."Comprendiamo, ma non condividiamo": così, mezzo secolo fa, Aldo Moro aveva riassunto la posizione del governo italiano dinanzi all'intervento americano in Vietnam. Più o meno le stesse parole ha usato nei giorni scorsi, al G20 di San Pietroburgo, Enrico Letta, per spiegare la posizione del governo italiano rispetto al possibile intervento americano in Siria. Sia Moro che Letta avevano come interlocutore un grande presidente democratico: Lyndon Johnson cinquant'anni fa, Barack Obama oggi. Nessuno dei due, né l'erede di John F. Kennedy, né il discepolo di Martin Luther King, Premio Nobel per la Pace, era o è un guerrafondaio. Ma entrambi erano-sono convinti di non poter restare con le mani in mano, di doversi assumere la tragica responsabilità di mettere sul tavolo la forza militare degli Stati Uniti d'America. Perché, altrimenti, "il mondo diventerebbe ancora peggiore".
Noi comprendiamo il punto di vista degli americani, il punto di vista del presidente Obama, ha detto Letta con le parole di Moro. Perché è vero che Bashar al-Assad, non solo è (da sempre) un dittatore, feroce e senza scrupoli, ma è un capo di stato che si è macchiato di orrendi crimini contro l'umanità, usando l'esercito, le armi pesanti, l'aviazione, forse armi di distruzione di massa come le armi chimiche, contro il suo stesso popolo. E la comunità internazionale ha la precisa "responsabilità di proteggere" i popoli contro i crimini dei tiranni. Non può voltarsi dall'altra parte, senza diventare complice, per omissione di soccorso, di quei crimini orrendi.
Noi comprendiamo anche l'indignazione di Barack Obama: contro la Russia, la Cina, le altre grandi potenze emergenti, che sembrano indifferenti a qualunque dimensione etica della politica internazionale. Il loro interesse nazionale, sembra essere l'unica, esclusiva bussola che orienta la loro azione sullo scacchiere mondiale. Capovolgendo la dottrina Bush dell'unilateralismo e della guerra preventiva, Obama aveva fatto del multilateralismo la sua bandiera. Mai più l'America da sola, aveva detto, perché i problemi del mondo devono essere affrontati insieme: all'Onu, che Bush voleva chiudere e Obama ha invece rilanciato; e nel G20, un consesso ben più vasto e rappresentativo dell'asfittico G7, ormai archiviato. Ma sia in sede Onu che in sede G20, Obama si è scontrato col cinismo da Realpolitik, in particolare di cinesi e russi, per i quali il principio più sacro è quello di non ingerenza negli affari interni di un paese sovrano: il contrario, la negazione della responsabilità di proteggere, in nome del primato dei diritti umani sulla sovranità degli stati. Il multilateralismo sta così rischiando di tornare sinonimo di paralisi da veti incrociati.
A questo gioco non ci sto, ha detto in sostanza Obama. Perché sarebbe la fine dell'idea stessa di comunità internazionale, in favore dell'ennesima variazione sul tema ottocentesco del concerto degli Stati. Col vostro cinismo mi costringete a fare da solo. Con chi ci sta. Anche rischiando l'isolamento: nella comunità internazionale, perfino in Occidente, negli stessi Stati Uniti, un paese affaticato dalla crisi, stanco di perdere soldati in Medio Oriente, tentato da un nuovo isolazionismo.
Comprendiamo tutto questo, noi italiani, non possiamo non comprenderlo. Ma non riusciamo ugualmente a condividere la scelta di intervenire nella sanguinosa, atroce guerra civile siriana con altre bombe, altri missili, altro dolore, altri morti. È vero, in Bosnia Clinton spezzò l'assedio della povera Sarajevo bombardando le truppe serbe. Fu un felice uso limitato della forza al servizio di una politica di pace. Anche se ci volle il drammatico bombardamento di Belgrado a protezione del Kosovo, per imporre la svolta definitiva nella ex-Jugoslavia. Ma è possibile ripetere quello schema nella Siria di oggi? A noi non sembra. Come ha detto il ministro degli Esteri, Emma Bonino, in un'audizione alle commissioni Esteri di Camera e Senato, per quello che conosciamo della situazione sul terreno, a noi non sembra possa esistere una soluzione militare della crisi siriana. A noi sembra che possa esserci solo una soluzione politica, la premessa della quale è riunire attorno ad un tavolo, allestito dall'Onu, tutte le parti: quelle interne alla Siria (gli alawiti di Assad, le diverse anime sunnite, i cristiani...) e quelle esterne, dall'Iran alla Turchia, dall'Arabia Saudita a Israele. E naturalmente Stati Uniti, Russia, Europa, Cina.
Come ha chiesto, con parole inequivoche, il documento politicamente più lucido reso pubblico in questi giorni: la lettera di Papa Francesco al presidente russo Vladimir Putin, nella sua veste di presidente del G20. Una lettera nella quale Bergoglio non si limita a chiedere agli americani di "abbandonare ogni vana pretesa di una soluzione militare". Perché "l'inutile massacro" è già in atto, da troppo tempo, nell'inerzia e indifferenza dei più. Molto più concretamente e impegnativamente, il Papa chiede a tutti i leader del G20 (si direbbe a cominciare da Putin, che è il primo destinatario della lettera), di non rimanere inerti "di fronte ai drammi che vive già da troppo tempo la cara popolazione siriana e che rischiano di portare nuove sofferenze ad una regione tanto provata e bisognosa di pace" e di mettere in campo "un nuovo impegno a perseguire, con coraggio e determinazione, una soluzione pacifica attraverso il dialogo e il negoziato tra le parti interessate con il sostegno concorde della comunità internazionale".
Letta ha citato espressamente il messaggio di Papa Francesco, facendolo proprio. L'Italia opererà in questo senso, sembrerebbe insieme a tutta l'Europa. Aldo Moro non riuscì a fermare la guerra in Vietnam. Speriamo, preghiamo e operiamo perché Enrico Letta abbia miglior fortuna del suo grande predecessore."Comprendiamo, ma non condividiamo": così, mezzo secolo fa, Aldo Moro aveva riassunto la posizione del governo italiano dinanzi all'intervento americano in Vietnam. Più o meno le stesse parole ha usato nei giorni scorsi, al G20 di San Pietroburgo, Enrico Letta, per spiegare la posizione del governo italiano rispetto al possibile intervento americano in Siria. Sia Moro che Letta avevano come interlocutore un grande presidente democratico: Lyndon Johnson cinquant'anni fa, Barack Obama oggi. Nessuno dei due, né l'erede di John F. Kennedy, né il discepolo di Martin Luther King, Premio Nobel per la Pace, era o è un guerrafondaio. Ma entrambi erano-sono convinti di non poter restare con le mani in mano, di doversi assumere la tragica responsabilità di mettere sul tavolo la forza militare degli Stati Uniti d'America. Perché, altrimenti, "il mondo diventerebbe ancora peggiore".
Noi comprendiamo il punto di vista degli americani, il punto di vista del presidente Obama, ha detto Letta con le parole di Moro. Perché è vero che Bashar al-Assad, non solo è (da sempre) un dittatore, feroce e senza scrupoli, ma è un capo di stato che si è macchiato di orrendi crimini contro l'umanità, usando l'esercito, le armi pesanti, l'aviazione, forse armi di distruzione di massa come le armi chimiche, contro il suo stesso popolo. E la comunità internazionale ha la precisa "responsabilità di proteggere" i popoli contro i crimini dei tiranni. Non può voltarsi dall'altra parte, senza diventare complice, per omissione di soccorso, di quei crimini orrendi.
Noi comprendiamo anche l'indignazione di Barack Obama: contro la Russia, la Cina, le altre grandi potenze emergenti, che sembrano indifferenti a qualunque dimensione etica della politica internazionale. Il loro interesse nazionale, sembra essere l'unica, esclusiva bussola che orienta la loro azione sullo scacchiere mondiale. Capovolgendo la dottrina Bush dell'unilateralismo e della guerra preventiva, Obama aveva fatto del multilateralismo la sua bandiera. Mai più l'America da sola, aveva detto, perché i problemi del mondo devono essere affrontati insieme: all'Onu, che Bush voleva chiudere e Obama ha invece rilanciato; e nel G20, un consesso ben più vasto e rappresentativo dell'asfittico G7, ormai archiviato. Ma sia in sede Onu che in sede G20, Obama si è scontrato col cinismo da Realpolitik, in particolare di cinesi e russi, per i quali il principio più sacro è quello di non ingerenza negli affari interni di un paese sovrano: il contrario, la negazione della responsabilità di proteggere, in nome del primato dei diritti umani sulla sovranità degli stati. Il multilateralismo sta così rischiando di tornare sinonimo di paralisi da veti incrociati.
A questo gioco non ci sto, ha detto in sostanza Obama. Perché sarebbe la fine dell'idea stessa di comunità internazionale, in favore dell'ennesima variazione sul tema ottocentesco del concerto degli Stati. Col vostro cinismo mi costringete a fare da solo. Con chi ci sta. Anche rischiando l'isolamento: nella comunità internazionale, perfino in Occidente, negli stessi Stati Uniti, un paese affaticato dalla crisi, stanco di perdere soldati in Medio Oriente, tentato da un nuovo isolazionismo.
Comprendiamo tutto questo, noi italiani, non possiamo non comprenderlo. Ma non riusciamo ugualmente a condividere la scelta di intervenire nella sanguinosa, atroce guerra civile siriana con altre bombe, altri missili, altro dolore, altri morti. È vero, in Bosnia Clinton spezzò l'assedio della povera Sarajevo bombardando le truppe serbe. Fu un felice uso limitato della forza al servizio di una politica di pace. Anche se ci volle il drammatico bombardamento di Belgrado a protezione del Kosovo, per imporre la svolta definitiva nella ex-Jugoslavia. Ma è possibile ripetere quello schema nella Siria di oggi? A noi non sembra. Come ha detto il ministro degli Esteri, Emma Bonino, in un'audizione alle commissioni Esteri di Camera e Senato, per quello che conosciamo della situazione sul terreno, a noi non sembra possa esistere una soluzione militare della crisi siriana. A noi sembra che possa esserci solo una soluzione politica, la premessa della quale è riunire attorno ad un tavolo, allestito dall'Onu, tutte le parti: quelle interne alla Siria (gli alawiti di Assad, le diverse anime sunnite, i cristiani...) e quelle esterne, dall'Iran alla Turchia, dall'Arabia Saudita a Israele. E naturalmente Stati Uniti, Russia, Europa, Cina.
Come ha chiesto, con parole inequivoche, il documento politicamente più lucido reso pubblico in questi giorni: la lettera di Papa Francesco al presidente russo Vladimir Putin, nella sua veste di presidente del G20. Una lettera nella quale Bergoglio non si limita a chiedere agli americani di "abbandonare ogni vana pretesa di una soluzione militare". Perché "l'inutile massacro" è già in atto, da troppo tempo, nell'inerzia e indifferenza dei più. Molto più concretamente e impegnativamente, il Papa chiede a tutti i leader del G20 (si direbbe a cominciare da Putin, che è il primo destinatario della lettera), di non rimanere inerti "di fronte ai drammi che vive già da troppo tempo la cara popolazione siriana e che rischiano di portare nuove sofferenze ad una regione tanto provata e bisognosa di pace" e di mettere in campo "un nuovo impegno a perseguire, con coraggio e determinazione, una soluzione pacifica attraverso il dialogo e il negoziato tra le parti interessate con il sostegno concorde della comunità internazionale".
Letta ha citato espressamente il messaggio di Papa Francesco, facendolo proprio. L'Italia opererà in questo senso, sembrerebbe insieme a tutta l'Europa. Aldo Moro non riuscì a fermare la guerra in Vietnam. Speriamo, preghiamo e operiamo perché Enrico Letta abbia miglior fortuna del suo grande predecessore."Comprendiamo, ma non condividiamo": così, mezzo secolo fa, Aldo Moro aveva riassunto la posizione del governo italiano dinanzi all'intervento americano in Vietnam. Più o meno le stesse parole ha usato nei giorni scorsi, al G20 di San Pietroburgo, Enrico Letta, per spiegare la posizione del governo italiano rispetto al possibile intervento americano in Siria. Sia Moro che Letta avevano come interlocutore un grande presidente democratico: Lyndon Johnson cinquant'anni fa, Barack Obama oggi. Nessuno dei due, né l'erede di John F. Kennedy, né il discepolo di Martin Luther King, Premio Nobel per la Pace, era o è un guerrafondaio. Ma entrambi erano-sono convinti di non poter restare con le mani in mano, di doversi assumere la tragica responsabilità di mettere sul tavolo la forza militare degli Stati Uniti d'America. Perché, altrimenti, "il mondo diventerebbe ancora peggiore".
Noi comprendiamo il punto di vista degli americani, il punto di vista del presidente Obama, ha detto Letta con le parole di Moro. Perché è vero che Bashar al-Assad, non solo è (da sempre) un dittatore, feroce e senza scrupoli, ma è un capo di stato che si è macchiato di orrendi crimini contro l'umanità, usando l'esercito, le armi pesanti, l'aviazione, forse armi di distruzione di massa come le armi chimiche, contro il suo stesso popolo. E la comunità internazionale ha la precisa "responsabilità di proteggere" i popoli contro i crimini dei tiranni. Non può voltarsi dall'altra parte, senza diventare complice, per omissione di soccorso, di quei crimini orrendi.
Noi comprendiamo anche l'indignazione di Barack Obama: contro la Russia, la Cina, le altre grandi potenze emergenti, che sembrano indifferenti a qualunque dimensione etica della politica internazionale. Il loro interesse nazionale, sembra essere l'unica, esclusiva bussola che orienta la loro azione sullo scacchiere mondiale. Capovolgendo la dottrina Bush dell'unilateralismo e della guerra preventiva, Obama aveva fatto del multilateralismo la sua bandiera. Mai più l'America da sola, aveva detto, perché i problemi del mondo devono essere affrontati insieme: all'Onu, che Bush voleva chiudere e Obama ha invece rilanciato; e nel G20, un consesso ben più vasto e rappresentativo dell'asfittico G7, ormai archiviato. Ma sia in sede Onu che in sede G20, Obama si è scontrato col cinismo da Realpolitik, in particolare di cinesi e russi, per i quali il principio più sacro è quello di non ingerenza negli affari interni di un paese sovrano: il contrario, la negazione della responsabilità di proteggere, in nome del primato dei diritti umani sulla sovranità degli stati. Il multilateralismo sta così rischiando di tornare sinonimo di paralisi da veti incrociati.
A questo gioco non ci sto, ha detto in sostanza Obama. Perché sarebbe la fine dell'idea stessa di comunità internazionale, in favore dell'ennesima variazione sul tema ottocentesco del concerto degli Stati. Col vostro cinismo mi costringete a fare da solo. Con chi ci sta. Anche rischiando l'isolamento: nella comunità internazionale, perfino in Occidente, negli stessi Stati Uniti, un paese affaticato dalla crisi, stanco di perdere soldati in Medio Oriente, tentato da un nuovo isolazionismo.
Comprendiamo tutto questo, noi italiani, non possiamo non comprenderlo. Ma non riusciamo ugualmente a condividere la scelta di intervenire nella sanguinosa, atroce guerra civile siriana con altre bombe, altri missili, altro dolore, altri morti. È vero, in Bosnia Clinton spezzò l'assedio della povera Sarajevo bombardando le truppe serbe. Fu un felice uso limitato della forza al servizio di una politica di pace. Anche se ci volle il drammatico bombardamento di Belgrado a protezione del Kosovo, per imporre la svolta definitiva nella ex-Jugoslavia. Ma è possibile ripetere quello schema nella Siria di oggi? A noi non sembra. Come ha detto il ministro degli Esteri, Emma Bonino, in un'audizione alle commissioni Esteri di Camera e Senato, per quello che conosciamo della situazione sul terreno, a noi non sembra possa esistere una soluzione militare della crisi siriana. A noi sembra che possa esserci solo una soluzione politica, la premessa della quale è riunire attorno ad un tavolo, allestito dall'Onu, tutte le parti: quelle interne alla Siria (gli alawiti di Assad, le diverse anime sunnite, i cristiani...) e quelle esterne, dall'Iran alla Turchia, dall'Arabia Saudita a Israele. E naturalmente Stati Uniti, Russia, Europa, Cina.
Come ha chiesto, con parole inequivoche, il documento politicamente più lucido reso pubblico in questi giorni: la lettera di Papa Francesco al presidente russo Vladimir Putin, nella sua veste di presidente del G20. Una lettera nella quale Bergoglio non si limita a chiedere agli americani di "abbandonare ogni vana pretesa di una soluzione militare". Perché "l'inutile massacro" è già in atto, da troppo tempo, nell'inerzia e indifferenza dei più. Molto più concretamente e impegnativamente, il Papa chiede a tutti i leader del G20 (si direbbe a cominciare da Putin, che è il primo destinatario della lettera), di non rimanere inerti "di fronte ai drammi che vive già da troppo tempo la cara popolazione siriana e che rischiano di portare nuove sofferenze ad una regione tanto provata e bisognosa di pace" e di mettere in campo "un nuovo impegno a perseguire, con coraggio e determinazione, una soluzione pacifica attraverso il dialogo e il negoziato tra le parti interessate con il sostegno concorde della comunità internazionale".
Letta ha citato espressamente il messaggio di Papa Francesco, facendolo proprio. L'Italia opererà in questo senso, sembrerebbe insieme a tutta l'Europa. Aldo Moro non riuscì a fermare la guerra in Vietnam. Speriamo, preghiamo e operiamo perché Enrico Letta abbia miglior fortuna del suo grande predecessore."Comprendiamo, ma non condividiamo": così, mezzo secolo fa, Aldo Moro aveva riassunto la posizione del governo italiano dinanzi all'intervento americano in Vietnam. Più o meno le stesse parole ha usato nei giorni scorsi, al G20 di San Pietroburgo, Enrico Letta, per spiegare la posizione del governo italiano rispetto al possibile intervento americano in Siria. Sia Moro che Letta avevano come interlocutore un grande presidente democratico: Lyndon Johnson cinquant'anni fa, Barack Obama oggi. Nessuno dei due, né l'erede di John F. Kennedy, né il discepolo di Martin Luther King, Premio Nobel per la Pace, era o è un guerrafondaio. Ma entrambi erano-sono convinti di non poter restare con le mani in mano, di doversi assumere la tragica responsabilità di mettere sul tavolo la forza militare degli Stati Uniti d'America. Perché, altrimenti, "il mondo diventerebbe ancora peggiore".
Noi comprendiamo il punto di vista degli americani, il punto di vista del presidente Obama, ha detto Letta con le parole di Moro. Perché è vero che Bashar al-Assad, non solo è (da sempre) un dittatore, feroce e senza scrupoli, ma è un capo di stato che si è macchiato di orrendi crimini contro l'umanità, usando l'esercito, le armi pesanti, l'aviazione, forse armi di distruzione di massa come le armi chimiche, contro il suo stesso popolo. E la comunità internazionale ha la precisa "responsabilità di proteggere" i popoli contro i crimini dei tiranni. Non può voltarsi dall'altra parte, senza diventare complice, per omissione di soccorso, di quei crimini orrendi.
Noi comprendiamo anche l'indignazione di Barack Obama: contro la Russia, la Cina, le altre grandi potenze emergenti, che sembrano indifferenti a qualunque dimensione etica della politica internazionale. Il loro interesse nazionale, sembra essere l'unica, esclusiva bussola che orienta la loro azione sullo scacchiere mondiale. Capovolgendo la dottrina Bush dell'unilateralismo e della guerra preventiva, Obama aveva fatto del multilateralismo la sua bandiera. Mai più l'America da sola, aveva detto, perché i problemi del mondo devono essere affrontati insieme: all'Onu, che Bush voleva chiudere e Obama ha invece rilanciato; e nel G20, un consesso ben più vasto e rappresentativo dell'asfittico G7, ormai archiviato. Ma sia in sede Onu che in sede G20, Obama si è scontrato col cinismo da Realpolitik, in particolare di cinesi e russi, per i quali il principio più sacro è quello di non ingerenza negli affari interni di un paese sovrano: il contrario, la negazione della responsabilità di proteggere, in nome del primato dei diritti umani sulla sovranità degli stati. Il multilateralismo sta così rischiando di tornare sinonimo di paralisi da veti incrociati.
A questo gioco non ci sto, ha detto in sostanza Obama. Perché sarebbe la fine dell'idea stessa di comunità internazionale, in favore dell'ennesima variazione sul tema ottocentesco del concerto degli Stati. Col vostro cinismo mi costringete a fare da solo. Con chi ci sta. Anche rischiando l'isolamento: nella comunità internazionale, perfino in Occidente, negli stessi Stati Uniti, un paese affaticato dalla crisi, stanco di perdere soldati in Medio Oriente, tentato da un nuovo isolazionismo.
Comprendiamo tutto questo, noi italiani, non possiamo non comprenderlo. Ma non riusciamo ugualmente a condividere la scelta di intervenire nella sanguinosa, atroce guerra civile siriana con altre bombe, altri missili, altro dolore, altri morti. È vero, in Bosnia Clinton spezzò l'assedio della povera Sarajevo bombardando le truppe serbe. Fu un felice uso limitato della forza al servizio di una politica di pace. Anche se ci volle il drammatico bombardamento di Belgrado a protezione del Kosovo, per imporre la svolta definitiva nella ex-Jugoslavia. Ma è possibile ripetere quello schema nella Siria di oggi? A noi non sembra. Come ha detto il ministro degli Esteri, Emma Bonino, in un'audizione alle commissioni Esteri di Camera e Senato, per quello che conosciamo della situazione sul terreno, a noi non sembra possa esistere una soluzione militare della crisi siriana. A noi sembra che possa esserci solo una soluzione politica, la premessa della quale è riunire attorno ad un tavolo, allestito dall'Onu, tutte le parti: quelle interne alla Siria (gli alawiti di Assad, le diverse anime sunnite, i cristiani...) e quelle esterne, dall'Iran alla Turchia, dall'Arabia Saudita a Israele. E naturalmente Stati Uniti, Russia, Europa, Cina.
Come ha chiesto, con parole inequivoche, il documento politicamente più lucido reso pubblico in questi giorni: la lettera di Papa Francesco al presidente russo Vladimir Putin, nella sua veste di presidente del G20. Una lettera nella quale Bergoglio non si limita a chiedere agli americani di "abbandonare ogni vana pretesa di una soluzione militare". Perché "l'inutile massacro" è già in atto, da troppo tempo, nell'inerzia e indifferenza dei più. Molto più concretamente e impegnativamente, il Papa chiede a tutti i leader del G20 (si direbbe a cominciare da Putin, che è il primo destinatario della lettera), di non rimanere inerti "di fronte ai drammi che vive già da troppo tempo la cara popolazione siriana e che rischiano di portare nuove sofferenze ad una regione tanto provata e bisognosa di pace" e di mettere in campo "un nuovo impegno a perseguire, con coraggio e determinazione, una soluzione pacifica attraverso il dialogo e il negoziato tra le parti interessate con il sostegno concorde della comunità internazionale".
Letta ha citato espressamente il messaggio di Papa Francesco, facendolo proprio. L'Italia opererà in questo senso, sembrerebbe insieme a tutta l'Europa. Aldo Moro non riuscì a fermare la guerra in Vietnam. Speriamo, preghiamo e operiamo perché Enrico Letta abbia miglior fortuna del suo grande predecessore.