Mar
25
2010
Mettiamoci in discussione
Alla vigilia delle elezioni regionali intervista al Presidente dell'Assemblea del Pd trentino Giorgio Tonini pubblicata su "Pensiero Democratico"
 

Nel partito sembra regni una certa confusione, tanto da far si che Romano Prodi si chieda chi comandi veramente, qual è la sua impressione rispetto all'attuale momento?


Il Pd ha "ballato" molto, nella turbolenta fase di discussione e poi decisione sugli assetti con i quali presentarsi alle elezioni regionali. In parte, si tratta di difficoltà inevitabili, data la crisi politica che da anni, dal fallimento dell'Unione in poi, affligge il centrosinistra, in parte di nodi irrisolti nel partito, sia a livello nazionale che locale, in parte di errori compiuti dalla segreteria: penso al ritardo col quale si sono fatte le primarie in molte regioni, all'incapacità di iniziativa nel Lazio, poi "coperta" dalla scelta, più subita che pensata, della Bonino, o al modo ideologico col quale si è impostata la scelta delle alleanze e delle candidature in Puglia... E tuttavia, io sono abbastanza ottimista sul risultato delle elezioni regionali. Possiamo riuscire a tenere buona parte delle 11 regioni che abbiamo governato fin qui e anche il risultato elettorale del Pd può tornare ad affacciarsi verso la soglia del 30 per cento. Se infatti noi abbiamo i nostri problemi, dalle parti del centrodestra, come è noto, ne hanno di più gravi, sia a livello nazionale, che in molte delle regioni dove si vota.




Non crede resti ancora da sciogliere il nodo fondamentale, cioè quello di dare un'identità precisa a questo partito, ovvero dire chi siamo e cosa vogliamo?


Chi siamo è chiarissimo: siamo i democratici italiani, parte della famiglia politico-culturale che in questo momento governa le principali democrazie del mondo: dagli Stati Uniti, all'India, al Giappone. E siamo anche, io credo, quelli che camminano lungo la via d'uscita più interessante e promettente dalla crisi del socialismo europeo, che non potrà tornare a governare i principali paesi del Vecchio continente se non passando per una coraggiosa e dolorosa metamorfosi, culturale prima ancora che politica: la stessa con la quale siamo alle prese noi riformisti italiani e che ci ha portato a dar vita al Pd. Cosa vogliamo è invece meno chiaro. Certo, vogliamo battere la destra, mandare via Berlusconi e tornare al governo del Paese. Ma non è chiaro se intendiamo farlo seguendo la strada maestra, quella che hanno seguito tutti i grandi partiti riformisti, la cosiddetta "vocazione maggioritaria": rinnovarsi in profondità, mettersi in discussione, nei programmi e anche nei gruppi dirigenti, per diventare maggioranza nei propri paesi. O se invece continueremo a cullare l'illusione che sarà la fortuna, cioè il fallimento dei nostri avversari, o la spregiudicatezza tattica nel mettere insieme alleanze spurie, a riportarci al governo. Un'illusione che abbiamo già pagato amaramente con il tragico naufragio dell'Unione dopo nemmeno due anni di governo.



Resta sempre aperta la questione morale, su cui il Pd non sembra trovare una posizione univoca. A Bologna si chiedono le dimissioni di Del Bono, mentre in Campania si candida De Luca, indagato per vari reati.


Si tratta di casi molto diversi. A De Luca sono contestate irregolarità amministrative nella gestione di una crisi aziendale, non atti di corruzione. Comunque, resta vero che in questi anni, un po' in tutta Italia, si è incrinata la credibilità del nostro modello di governo locale e regionale, in quelle che a lungo abbiamo vantato come le nostre principali virtù: l'innovazione nei programmi, la competenza nel personale politico-amministrativo, la trasparenza nei metodi di governo. Da molte parti continuiamo a governare bene, lungo questa strada. Ma in troppe realtà l'innovazione ha lasciato il passo al doroteismo, la competenza al carrierismo, la trasparenza alla corruzione. In particolare nel Mezzogiorno queste degenerazioni hanno travolto la nostra capacità di essere fattore di cambiamento: basti pensare a ciò che è accaduto proprio in Campania. E non mi stancherò mai di ricordare che Veltroni ha gettato la spugna dopo la sconfitta di Soru in Sardegna, ossia dell'esperienza più innovativa, riformatrice e moralizzatrice che il centrosinistra aveva saputo mettere in piedi. Comunque vadano le elezioni regionali, il problema di definire un nuovo modello di governo regionale e locale, che sappia coniugare efficienza, innovazione e trasparenza, e conquistare la maggioranza dei consensi, ce l'abbiamo davanti a noi, in particolare ma non solo nel Mezzogiorno.



Quali sono gli scenari post elezioni regionali? Il sindaco di Torino Chiamparino dice che Bersani dovrà essere capace di trovare un leader credibile che possa sfidare la destra e costruire una coalizione che vada da Casini a Vendola. Condivide questa proposta?


Il problema più grave che le regionali ci consegnano, anche se il risultato dovesse, come io penso, rivelarsi positivo, mi pare la mancanza di una "linea" nazionale riconoscibile: alla fine, in ogni regione ci presentiamo in modo diverso dalle altre, quanto alle alleanze. E' la conferma che non sarà facile mettere insieme, attorno al Pd, uno schieramento ampio e coeso al tempo stesso. Alla nostra sinistra c'è un campo di Agramante e Di Pietro resta lontano dallo scegliere tra populismo e riformismo. Soprattutto, l'Udc non sembra avere alcuna intenzione di fare il nuovo "centro" di un nuovo "centro-sinistra" col trattino. Potrà schierarsi con noi solo contro Berlusconi, se il Cavaliere resterà in sella anche nel 2013, o comunque alle prossime elezioni politiche. Ma se la situazione dovesse mettersi in movimento nel centrodestra, ho l'impressione che Casini sarà interessato a giocare quella partita. A meno che il Pd non riprenda l'iniziativa, per tornare a proporsi come il soggetto del cambiamento possibile del Paese. Proprio per questo, trovo insensato parlare di candidature alla premiership diverse dal leader del Pd. Per la semplice ragione che non avrebbe alcuna credibilità agli occhi del Paese uno schieramento che affidasse la leadership ad un partito minore: sarebbe come ammettere che il partito maggiore non è all'altezza della sfida del governo. E del resto, dall'altra parte, a guidare il centrodestra sarà ancora il leader del Pdl: si tratti di nuovo di Berlusconi o si tratti di Fini, di Tremonti o di Formigoni: il candidato premier sarà il loro leader, come avviene in tutti i paesi democratici del mondo. Il candidato premier del centrosinistra non sarà dunque né Chiamparino, né Casini: sarà Bersani, che è stato scelto dai nostri elettori proprio per questo. Ogni altro discorso a me sembra un diversivo, una fuga dalle nostre responsabilità.

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