Aug
04
2013
Berlusconi, una sentenza che pesa
Pubblicato sul magazine online www.lavalsugana.it

Prima l'attesa, poi la sentenza, infine i commenti e le reazioni, hanno dominato la settimana parlamentare appena trascorsa. La sentenza è quella della Corte di Cassazione sul processo Mediaset, che ha confermato la condanna per frode fiscale di Silvio Berlusconi e la relativa pena di quattro anni di reclusione, grazie all'indulto ridotti ad uno, da scontarsi agli arresti domiciliari o affidato ai servizi sociali. 

La Cassazione ha confermato anche la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici, ma non per cinque anni, come avevano disposto i giudici nei gradi precedenti, bensì per una misura da uno a tre anni, da definirsi da parte della Corte d'Appello di Milano. In ogni caso, la condanna comporta la decadenza di Berlusconi da senatore, purché il Senato disponga con un voto l'esecuzione di questo aspetto della sentenza.

Come ho scritto in un commento a caldo che mi ha chiesto il quotidiano del Pd, "Europa", si tratta di una sentenza pesante, per Berlusconi e per il paese.

Pesante per Silvio Berlusconi, che vede confermate, in via definitiva e irrevocabile, le accuse contro di lui, anche da parte dei giudici della Suprema Corte, dopo quelli del Tribunale e quelli della Corte d'appello di Milano. Anche per i giudici di ultima istanza, Berlusconi è colpevole di frode fiscale: un reato tanto più odioso, se si considera che è stato commesso da un uomo di governo.

Ma la sentenza è pesante per l'Italia. Non poteva esserci conferma più clamorosa e scandalosa del grave conflitto d'interessi che ha turbato e danneggiato il nostro Paese per vent'anni. Una sentenza definitiva scolpisce sul marmo che, anche da presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non solo continuava ad occuparsi attivamente delle sue aziende, ma si occupava anche, e in prima persona, delle attività illegali delle sue aziende.

Minimizzare la gravità, morale e politica, di una verità, ora anche giudiziaria, come questa, è semplicemente impossibile. Come è impossibile prevedere ora quali potranno essere gli effetti di una sentenza tanto pesante sul fragilissimo equilibrio politico italiano: troppe sono le incognite da considerare. A cominciare da quella che riguarda il comportamento dello stesso Berlusconi: solo nei prossimi giorni, si capirà se la più volte affermata determinazione a tenere separata la sua vicenda processuale dalla sorte del governo, sarà stata solo una tattica difensiva nel processo, o invece una linea politica destinata a durare.

La reazione a caldo, di Berlusconi e dei suoi (alcuni, i cosiddetti "falchi", non tutti), è stata durissima, ai limiti dell'incitazione eversiva, sul piano verbale. Ma appunto, "ai limiti" e "sul piano verbale". Solo se alle parole dovessero seguire dei fatti, primo tra tutti la messa in crisi del governo, ritirandogli la fiducia, saremmo in presenza di una svolta nella linea sin qui seguita da Berlusconi e dal suo partito.

Può darsi che mi sbagli (lo vedremo presto), ma non credo che ciò avverrà. Certo, la tentazione di far saltare il banco, per Berlusconi, è forte. Ma lui sa benissimo che sarebbe una mossa inutile, se non controproducente. Anche facesse cadere il governo Letta, non è affatto certo, anzi neppure probabile, che riuscirebbe ad ottenere le elezioni anticipate, ammesso che il Cavaliere (o ex tale) possa volerle, come appello al popolo contro i giudici. Un appello al quale (peraltro) egli potrebbe partecipare solo come silenzioso spettatore, agli arresti domiciliari e impossibilitato a candidarsi. Oggetto delle elezioni, ma non soggetto.

Tra la crisi di governo e le elezioni, c'è infatti un ostacolo in mezzo, grande come il colle più alto di Roma. È un ostacolo che si chiama Giorgio Napolitano. Come i lettori di questa rubrica ricorderanno, quando Napolitano accettò di esaudire la supplica dei partiti (Pd, Pdl, Scelta civica) di farsi rieleggere presidente della Repubblica, pose una condizione, chiara e ferma: la loro disponibilità a collaborare al governo del paese, in un momento drammatico sul piano economico e sociale, e a realizzare le riforme istituzionali (legge elettorale e non solo) necessarie a restituire credibilità e funzionalità alla nostra democrazia.

I lettori ricorderanno anche che Napolitano aggiunse che quando tutto questo fosse stato fatto, egli si sarebbe sentito libero di lasciare il Quirinale. Ma soprattutto, che la stessa libertà egli si sarebbe riconosciuto in presenza del fallimento dell'accordo tra le forze politiche. Insomma: se salta il governo per la vostra (dei partiti) incapacità o non volontà di collaborare, io non sciolgo le camere, ma mi dimetto da presidente. E voi partiti, per tornare alle urne, dovete prima accordarvi per eleggere un nuovo Capo dello Stato.

Berlusconi queste cose le sa molto meglio di me, perché se le è sentite dire in privato, al Quirinale, prima ancora che in pubblico, nell'Aula di Montecitorio, nel discorso di insediamento del presidente rieletto. E sa benissimo che il vecchio presidente non è tipo da lasciarsi impressionare e tanto meno intimidire per una piazzata di scalmanati davanti al suo portone. Non a caso, la annunciata manifestazione del Pdl è stata spostata davanti ad un altro portone, quello di Palazzo Grazioli. E così, un'adunata dai toni eversivi, come quelli usati da Sandro Bondi ("o grazia, o guerra civile"), è diventata una espressione, per quanto rabbiosa, di solidarietà del partito al suo leader condannato.

Insomma, Berlusconi e il Pdl sanno che la via della prova di forza è preclusa e continuare a minacciarla diventerà molto presto una prova di impotenza. D'altra parte, l'altra via, quella maestra, la via di accettare di separare i destini personali di Berlusconi da quelli del suo partito, come seppero fare Helmut Kohl o Jacques Chirac, è una via tutta in salita, una specie di sesto grado superiore, per un partito personale (e padronale) come Forza Italia prima e il Pdl poi.

È quindi possibile e forse perfino probabile che il Pdl finisca per incamminarsi lungo una terza via, frutto della sua incapacità a risolversi a imboccare con decisione una delle prime due. È la via che Enrico Letta ha giustamente colto come il pericolo più grande, per il governo e per il paese: la via del logoramento, del progressivo deterioramento del quadro politico, "incrodato" in una situazione nella quale risulta impossibile andare sia avanti che indietro. Coi gravi effetti, in termini di inconcludenza dell'azione di governo e di paralisi del parlamento, che è facile immaginare.

A sua volta, anche il Partito democratico è chiamato ad una delle prove più difficili della sua storia. Deve riuscire a farsi interprete di tutto lo sdegno, morale e civile, che attraversa la gran parte della comunità nazionale, contro comportamenti tanto gravi; e al tempo stesso fare appello a tutta la lucidità e il sangue freddo di cui dispone (purtroppo non in grande quantità, come è noto), per non lasciare che il berlusconismo trascini con sé nella sua rovina il paese intero.

Anche il Pd può essere tentato, magari per mediocri calcoli tutti interni al partito, pro o contro Renzi, di utilizzare la sentenza per far saltare governo e legislatura. Ma anche il Pd, in questo caso, dovrebbe vedersela con la ferma saggezza di Napolitano. Meglio allora, molto meglio, anche per il Pd, tenere fermo il punto al quale ha ispirato fin qui la sua condotta: distinguere, anzi separare nettamente, la vicenda processuale di Berlusconi dalla sorte del governo Letta.

La sentenza della Cassazione ha dimostrato che finora è stato possibile e positivo. La decisione della Cassazione è infatti anche la smentita più netta e definitiva della vergognosa campagna, tesa a rappresentare il difficile accordo tra le forze politiche, che ha dato vita al governo Letta, come fondato su scambi opachi, nei quali avrebbe trovato posto anche una qualche soluzione politica, si diceva garantita dallo stesso presidente della Repubblica, della vicenda giudiziaria di Berlusconi. Anche contro questi sospetti, la Suprema Corte ha emesso una sentenza definitiva.

La separazione tra processo Berlusconi e governo Letta deve essere ora confermata dal Pd votando in Senato, con composta fermezza, la decadenza di Berlusconi, in esecuzione della condanna. Non per vendetta, ma in nome del principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.

 E poi impegnandosi per il successo dell'azione del governo. E convocando finalmente congresso e primarie per l'indicazione del nuovo leader, col quale presentarsi alle elezioni (comunque non molto lontane), con l'obiettivo di vincerle e di dar vita a quel lungo ciclo riformista che l'Italia non ha mai conosciuto.

Ma qui il discorso si allarga troppo. Restiamo alla cronaca della settimana ricordando che l'Aula di Palazzo Madama ha approvato il decreto sul lavoro e quello sugli ecobonus. E ha visto i grillini cominciare a fare ostruzionismo (niente di nuovo sotto il sole: lo avevano già fatto, a turno, più o meno con le stesse asprezze, sia il centrodestra che il centrosinistra).

In commissione sono proseguite le audizioni nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla difesa europea. Sono stato relatore del parere della Commissione Esteri sul decreto cosiddetto "del fare", che sarà oggetto principale della prossima settimana parlamentare.

1 commenti all'articolo - torna indietro
inviato da michele paoli il 22 August 2013 11:53
Ho letto l'Intervista che lei ha rilasciato a Francesca Schianchi su "la stampa".
La mancanza di determinazione, il possibilismo latente, e l'ambiguitą del messaggio alimentano dentro me quel dubbio (che sempre pił fatico a tenere sopito) di essere stato preso in giro per anni.

(verrà moderato):

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