Due donne (e una bambina) sono state, loro malgrado, al centro della settimana parlamentare: la ministra per l'integrazione Cécile Kienge, fatta oggetto, durante un comizio della Lega Nord nel fine-settimana, di insulti razzisti da parte del vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli; e la moglie dell'uomo d'affari e oppositore politico kazako Muktar Ablyazov, Alma Shalabayeva, consegnata dalla polizia italiana il 31 maggio scorso, insieme alla figlia di sei anni, alle autorità kazake e da queste prontamente rispedita in patria contro la sua volontà. Di entrambi i casi si è ripetutamente parlato nell'Aula di Palazzo Madama, durante la lunga settimana cominciata lunedì 15 luglio pomeriggio e terminata il venerdì successivo.
È il presidente dei senatori del Pd, Luigi Zanda, il primo a protestare, lunedì pomeriggio, per il comiziaccio di Calderoli, che aveva paragonato la ministra nera ad un orango, probabilmente nel disperato tentativo di riaccendere un qualche rabbioso entusiasmo in ciò che resta della base leghista.
Un vicepresidente del Senato ha così insultato un ministro, ma prima ancora ha insultato una donna, per di più facendo ricorso al più squallido armamentario razzista. Calderoli non è più degno di restare al suo posto, conclude Zanda, seguito dagli interventi di tutti gli altri gruppi (il Pdl per la verità stigmatizza l'accaduto, ma non chiede le dimissioni), salvo un imbarazzato Sergio Divina, a nome della Lega Nord.
Il gruppo del Pd, non potendo presentare una mozione di sfiducia o di censura, presenta una mozione di solidarietà alla ministra Kienge. Su questo punto è opportuno un approfondimento, perché tanti cittadini si chiedono perché Calderoli sia stato scelto dal Pd come vicepresidente e perché il Pd non lo abbia costretto a dimettersi.
La prima cosa è semplicemente falsa: il Pd non ha eletto Calderoli vicepresidente del Senato. Come i lettori di questa rubrica ricorderanno, l'Assemblea di Palazzo Madama elegge a maggioranza il presidente (e Piero Grasso è stato eletto coi voti del Pd, di Sel, di Scelta civica, delle Autonomie e di alcuni grillini dissidenti). Ed elegge poi i quattro vicepresidenti, assegnando a ciascun senatore due preferenze: in questo modo due vicepresidenti sono eletti dalla maggioranza e due dalle minoranze.
E infatti: Pd, Sel, Autonomie e Scelta civica hanno eletto insieme Valeria Fedeli e Linda Lanzillotta, mentre Pdl e Lega si sono accordati tra loro su Gasparri e Calderoli. Cinque Stelle non aveva i numeri per eleggere un suo vicepresidente, né ha voluto fare accordi con altri. Il Pd ha però deciso unilateralmente di eleggere un vicepresidente grillino alla Camera ed un questore grillino al Senato.
Secondo punto importante: presidente e vicepresidenti del Senato (come della Camera) non possono essere sfiduciati, o in altro modo costretti a dimettersi, se non lo fanno di loro volontà. È una norma di garanzia, a tutela di un ruolo di garanzia. Ma è anche una norma che impone, sul piano morale, un supplemento di equilibrio, di saggezza, anche di autocontrollo, da parte di chi ne beneficia. Ed è una norma che presuppone anche la fiducia che chi dovesse dar luogo ad atti non consoni alla carica che ricopre, non esiterebbe a trarne le conseguenze.
Calderoli non lo ha fatto. Martedì mattina (lunedì pomeriggio non era presente in Aula) ha preso la parola dai banchi della Lega. Si è accusato. Si è scusato. Si è impegnato a non farlo mai più. E si è assolto. Come penitenza, si è imposto di inviare un mazzo di rose alla Kienge.
Calderoli è una sorta di Dr. Jeckyll and Mr. Hyde del Senato. Impeccabile per imparzialità, oltre che per lucidità, quando presiede, si trasforma in un campione di faziosità appena si alza dalla poltrona più alta del Senato, come se quella carica alla quale ha avuto l'onore di essere eletto non lo seguisse anche fuori dall'Aula.
Martedì mattina Calderoli ha reso noto un altro tratto della sua personalità: come la maggior parte degli esseri umani, evidentemente "padani" compresi, anche l'autore del "Porcellum" sa essere tanto severo con gli altri, quanto generoso con se stesso. Il Senato non ha potuto far altro che prenderne atto. E celebrare un rito riparatorio: con l'approvazione, giovedì pomeriggio, all'unanimità (tranne l'astensione della Lega), della mozione di solidarietà alla Kienge, proposta dal Pd.
Più complessa, e per molti aspetti più grave, l'altra vicenda, quella che ha avuto come protagoniste una donna kazaka e la sua bambina. Una bruttissima storia, che puzza di gas e di petrolio, di ragion di Stato e di relazioni imbarazzanti, forse anche private, con un dittatore, di aperte violazioni del diritto interno, di quello internazionale e dei più elementari diritti umani.
La prima notizia l'aveva data l'ANSA, alle 20.01 del 31 maggio scorso: "Alma Shalabayeva, moglie dell'uomo d'affari e oppositore politico kazako Mukhtar Ablyazov, ricercato in patria per presunte truffe ed associazione criminale, è stata espulsa oggi da Roma, dove risiedeva dallo scorso anno, insieme con la figlia di sei anni ed imbarcata su un aereo, appositamente arrivato dal Kazakistan, per riportarla in patria... La donna è stata prelevata mercoledì notte dalla polizia nel corso di un'operazione finalizzata alla ricerca, risultata vana, del marito''.
Nei giorni successivi, la questione era approdata in parlamento e in particolare in Senato, dove era stata oggetto di richieste di chiarimento: da parte dei gruppi parlamentari, a cominciare da quello del M5S; del presidente della commissione Esteri, Pierferdinando Casini; e soprattutto della Commissione Diritti umani e del suo presidente, il democratico Luigi Manconi.
In un "question time" alla Camera, Letta si era impegnato a fare piena luce sulla vicenda. Il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, aveva incaricato di ricostruire la dinamica degli eventi e le responsabilità dell'accaduto al nuovo Capo della Polizia, Alessandro Pansa, nominato dopo il 31 maggio.
L'inchiesta interna di Pansa si è conclusa martedì 16 luglio con la consegna al ministro di una relazione che Alfano, d'accordo con Letta, ha deciso di rendere subito nota al Parlamento. Alfano è quindi intervenuto in senato mercoledì pomeriggio, consegnando, illustrando e in parte leggendo la relazione di Pansa: dalla quale emerge la piena conferma della gravità dei fatti, il ruolo anomalo e abnorme dell'ambasciatore kazako, che sembra muoversi come un superiore gerarchico delle nostre autorità di polizia, e la mancata informazione al ministro e al governo della decisione più importante e più grave, quella di espellere Alma Shalabayeva e sua figlia e di consegnarle alle autorità kazake.
Alfano annuncia di aver accettato le dimissioni del suo capo di gabinetto e di aver avvicendato un altro importante dirigente, responsabili di non aver informato il ministro, che quindi nulla sapeva della vicenda e al quale non può quindi essere attribuita alcuna responsabilità. Come Calderoli, anche Alfano si assolve. Senza nemmeno scusarsi...
Per il Pd prende la parola il collega vicepresidente del gruppo, Claudio Martini. Come concordato in presidenza, il suo è un intervento molto asciutto, per non dire freddo: ringrazia Alfano della tempestività dell'informativa sulla relazione del Capo della Polizia, prende atto della versione dei fatti e si riserva di compiere ulteriori approfondimenti. Come dire: grazie, ma non ci hai convinto, purtroppo la storia non finisce qui.
E infatti la storia non finisce lì. Anche perché, facendo il loro mestiere di opposizione, sia M5S che Sel hanno presentato in Senato una mozione di sfiducia individuale nei confronti di Alfano, che verrà discussa e votata in Aula venerdì mattina, alla presenza di Letta.
Nel Pd non mancano le voci che chiedono di votare la mozione di sfiducia, o di presentarne una nostra. Ma sia nella segreteria del partito, convocata da Epifani mercoledì pomeriggio, sia nell'assemblea dei senatori di giovedì, introdotta dallo stesso Epifani, la linea che prevale è un'altra.
Con 80 voti a favore e 7 astenuti, il gruppo prende quella che anche a me era parsa (ed ero intervenuto per dirlo) l'unica decisione possibile e ragionevole, per quanto difficile, per il principale partito di governo: votare contro le mozioni di sfiducia dell'opposizione.
Se infatti un partito di governo vuole rimuovere un ministro, fa valere questa posizione in seno alla maggioranza, non vota con le opposizioni: perché a quel punto a cadere non sarebbe più il ministro, ma il governo nel suo insieme. Tanto più se il ministro in questione è il segretario del principale partito alleato.
Ma il governo (come ha ricordato giovedì mattina il presidente Napolitano, che pure ha usato parole durissime per la vicenda kazaka), non può essere messo in crisi, perché l'Italia non può permettersi nuova instabilità politica, senza pagare un prezzo altissimo.
Al tempo stesso, il Pd non può considerare chiusa la vicenda Shalabayeva: perché ci sono una madre e una bambina a rischio di persecuzione da parte del governo del loro paese e l'Italia, che non ha saputo proteggerle, ora non può abbandonarle; perché persistono molte zone d'ombra nella ricostruzione dei fatti di quei giorni di fine maggio; perché non convince l'assoluta assenza di responsabilità politiche, oltretutto inopportuna nel delicato rapporto tra politica e polizia; e perché proprio la preoccupante descrizione dello stato del vertice delle forze di polizia, proposta da Alfano in Parlamento, rende ineludibile la questione della compatibilità di un compito così gravoso come quello di ministro dell'Interno, con il cumulo di cariche nelle mani dello stesso Alfano, che è anche vicepresidente del consiglio e segretario del Pdl.
Quando venerdì mattina Zanda espone in Aula questa linea, così motivando il no dei senatori del Pd alla mozione di sfiducia, Alfano mostra chiari segni di disapprovazione, mentre Letta ascolta come impietrito. Il presidente del Consiglio non aveva infatti voluto (o potuto) dare seguito ai pressanti appelli del suo partito, incalzato da una base indignata, a convincere Alfano ad assumersi la responsabilità politica dell'accaduto e ammettere l'insostenibilità del triplo incarico. Ha deciso anzi di coprire in prima persona Alfano, identificando la sfiducia ad un ministro con la sfiducia al governo come tale.
A quel punto il Pd non poteva che prenderne atto e votare contro la sfiducia. Ma non poteva e non può considerare chiusa una vicenda che chiusa non è. Vedremo gli sviluppi nei prossimi giorni.
Per intanto, tre ultime, brevi notizie. Durante la settimana passata il Senato ha concluso (per ora) la discussione sugli F35, approvando la mozione di maggioranza nello stesso testo votato dalla Camera; sono intervenuto nella discussione, riprendendo gli argomenti noti ai lettori di questa rubrica; il testo del mio intervento lo trovate su www.giorgiotonini.it. Il Senato ha anche approvato, all'unanimità e d'accordo con la Camera, la ricostituzione, anche in questa legislatura, della Commissione Antimafia. Ed ha approvato, in via definitiva, il decreto che sospende l'Imu, rifinanzia la Cassa integrazione e taglia gli stipendi ai ministri parlamentari.