Lo straordinario successo delle amministrative dovrebbe avere sul Pd un effetto stabilizzante. Da un lato, i ballottaggi hanno dimostrato che le larghe intese e il governo Letta-Alfano, al contrario di quel che si è detto e scritto per settimane da parte dei soliti "profeti di sventura", fanno male al Pdl (per non dire del M5s) e bene, si direbbe molto bene, al Pd. Dall'altro, la vittoria riconsegna intatto al Pd il problema di sempre: come trasformare la prevalenza alle amministrative in vera supremazia alle politiche, quando vota anche l'Italia "profonda" (e non solo quella delle città) e tornano a votare anche molti astenuti, alle amministrative prevalentemente di centrodestra. La comprensibile (e strameritata) euforia di queste ore non deve infatti farci dimenticare, senza nulla togliere al valore dimostrato dai nostri candidati e dal Pd nel suo insieme, che l'altra volta, in queste stesse città che hanno visto oggi la schiacciante vittoria del centrosinistra, si era votato insieme alle politiche: con gli effetti sulla partecipazione al voto e sull'orientamento dell'elettorato che sono facilmente comprensibili.
In ogni caso, mai come dopo il voto di domenica e lunedì, il problema del Pd (e del segretario Epifani, che ha già al suo attivo il non trascurabile merito di aver rasserenato il clima interno al partito) è chiaramente quello di come valorizzare appieno, per stare al dibattito pubblico di questi giorni, entrambe le principali "risorse" di cui dispone. Non mi riferisco soltanto alle due giovani personalità che ormai occupano autorevolmente la scena democrat: Enrico Letta e Matteo Renzi. Ma anche e soprattutto alle due grandi sfide che esse evocano: da un lato, la prova di governo, che si è dimostrato essere condivisa e apprezzata, o quanto meno compresa e accettata, dalla gran parte dei nostri elettori, ma che resta un'impresa di straordinaria difficoltà, dalla quale dipende non poca parte della credibilità del Pd agli occhi del Paese; dall'altro, la "vocazione maggioritaria", cioè la tensione a conquistare, anche grazie alla prova di governo e alla nostra capacità di "elaborarla" politicamente, una parte consistente dei voti in fuga dal centrodestra, in modo da produrre quel riallineamento elettorale, quel cambiamento strutturale dei rapporti di forza nel Paese profondo, senza il quale non potrà mai darsi una vera vittoria del centrosinistra e dunque un vero governo del Pd.
In questa prospettiva, la candidatura di Matteo Renzi alla guida del Pd, un'ipotesi che il sindaco di Firenze sembra oggi considerare quanto meno possibile, mi parrebbe una opportunità che sarebbe un errore grave non cogliere. Il Pd ha infatti non solo interesse, ma bisogno, un bisogno vitale, che il difficile esperimento del governo Letta-Alfano abbia successo. Non servono molte parole per argomentare questa convinzione: basti immaginare in che condizione verrebbe a trovarsi l'Italia se l'esperimento fallisse, se il governo non riuscisse a creare le condizioni di una ripresa della crescita e dell'occupazione e se le forze politiche di questa difficile maggioranza parlamentare dovessero, ancora una volta, dimostrarsi incapaci di un accordo, di una mediazione alta, sulle riforme costituzionali.
Ma il successo del governo Letta-Alfano, se richiede tutta la pazienza e la duttilità di cui siamo capaci e della quale, per fortuna, Enrico Letta dispone in abbondanza, non verrà, non potrà venire, dall'utilizzo sistematico di istituti a lungo utilizzati nella logica del "governo debole" italiano: il rinvio, la proroga, la deroga. Su questo Renzi ha ragione da vendere (e Letta mostra di condividere): il governo durerà, non se saprà abilmente "tirare a campare", ma solo se saprà fare le riforme che sono necessarie al Paese, sia sul terreno economico e sociale, sia su quello politico e istituzionale. Dunque, il Pd che serve al governo non è un partito che frena le riforme, nell'illusoria speranza che si possa prolungare artificialmente la vita della politica che componeva i conflitti redistributivi scaricando i costi sulla spesa pubblica e in definitiva sulle generazioni future; o nella tenace resistenza ad ogni cambiamento di una forma di governo che appariva inadeguata già ai padri costituenti. Il Pd che serve al governo (e in definitiva al Paese) è un partito che organizza il consenso attorno ad una prospettiva riformista, ad un progetto di cambiamento capace al tempo stesso di visione e di concretezza, di radicalità morale e di apertura inclusiva, motivando e mobilitando le tante energie che il pluralismo della sinistra italiana ha prodotto, ma guardando ben oltre i tradizionali confini della sinistra italiana. È solo vincendo questa prova che sarà possibile vincere anche quella successiva, quella delle elezioni che dovranno darci finalmente un governo del Pd, un governo che apra quel ciclo riformista che l'Italia non ha mai conosciuto.