La crisi dei debiti sovrani europei ha messo in evidenza un duplice squilibrio, in seno all'Unione e in particolare all'area dell'euro: tra finanze pubbliche più e meno indebitate; e tra paesi con la bilancia commerciale in deficit o invece in surplus. E tuttavia, lo squilibrio interno all'Europa non sarebbe insostenibile, se accanto e insieme a quello dell'Unione monetaria, l'Europa avesse eretto altri due pilastri: l'unione economica, ossia una politica comune sia della finanza pubblica che dell'economia reale; e una vera unione politica, ovvero la legittimazione democratica di un vertice di governo dell'Unione.
Così non è stato, l'Europa si è così rinchiusa in una gabbia dalla quale è ora assai difficile uscire. La divergenza economica si sta infatti trasformando in divaricazione politica, alimentata da opposti populismi, entrambi euroscettici, quando non antieuropeisti: divaricazione tra i paesi in surplus, che lamentano i costi eccessivi e il moral hazard della "solidarietà" nei confronti dei "paesi-cicala"; e i paesi indebitati, sempre meno propensi a sopportare l'imposizione, da parte dell'"egoismo" dei più forti, di un rigore finanziario dal sapore punitivo e che produce effetti depressivi sul piano economico, oltre che destabilizzanti su quello sociale.
Per uscire dalla gabbia, l'Europa ha bisogno di due chiavi: una sta a Roma, l'altra a Berlino.
La chiave che è a Roma è nota ed è da due anni che si sta lavorando ad azionarla: dalle manovre finanziarie di Tremonti nell'estate 2011, quando il Governo Berlusconi si impegnò con Bruxelles (e con Berlino) a raggiungere già nel 2013 l'equilibrio strutturale del bilancio, passando per gli "spettacolari" (Merkel) interventi del Governo Monti, fino alla conferma degli impegni europei da parte del Governo Letta. Come è ormai evidente, non si tratta per l'Italia solo di varare severe manovre congiunturali. Si tratta piuttosto di mettere in atto riforme, sia del sistema pubblico che dei mercati, che perseguano il duplice obiettivo di innalzare la produttività della spesa pubblica e di migliorare la competitività del sistema Italia.
Il problema è che si va facendo sempre più difficile seguire una linea di rigore finanziario e di riforme strutturali, in quanto tale inevitabilmente prociclica e quindi recessiva, senza il contrappeso di politiche espansive ed anticicliche sul piano europeo. Sta qui la necessità, se si vuole uscire dalla gabbia, non di smettere di agire sulla chiave italiana, come vorrebbero in molti, nel Pdl come nel Pd, ma di agire subito anche sulla seconda chiave, quella custodita a Berlino.
In un saggio apparso sul sito internet di "ForeignAffairs"il 17 novembre 2011, Why Only Germany Can Fix the Euro, Matthias Matthijs e Mark Blyth sostengono che il problema dell'Europa non nasce da un eccesso, ma piuttosto da un deficit di egemonia della Germania, alla quale si può e si deve rimproverare di non aver finora voluto agire come un "responsible hegemon" in Europa, garantendo un set di "beni pubblici" che le istituzioni e le politiche dell'Unione, senza l'impegno di Berlino, non sono in grado di offrire: un mercato per i prodotti dei paesi meno competitivi, prestiti anticiclici a lungo termine, tassi di cambio stabili, coordinamento macroeconomico e prestiti di ultima istanza durante le crisi finanziarie.
Ma un nuovo patto di stabilità e crescita europea implica un salto di qualità politico-istituzionale. Insomma, all'Europa serve non uno stato (l'Europa è costitutivamente “poliarchica”), ma un’autorità di governo, una "Casa Bianca", un presidente eletto dai popoli e bilanciato dagli stati e dal parlamento. Non si tratta di una fuga in avanti, ma di una necessità storica.