May
13
2013
Andreotti, le Commissioni e la Svp
Pubblicato sul magazine online www.lavalsugana.it

È stata, quella passata, la settimana del Risiko delle Commissioni parlamentari, della protesta della Svp, della morte di Giulio Andreotti e dell'elezione di Guglielmo Epifani a segretario del Pd.

 

Le 14 Commissioni parlamentari permanenti, che costituiscono lo scheletro del lavoro dei due rami del Parlamento, erano state convocate dai presidenti di Camera e Senato, Boldrini e Grasso, per le ore 15 di martedì 7 maggio. All'ordine del giorno l'elezione dei rispettivi presidenti, di due vicepresidenti e di due segretari: cinque posizioni per ogni Commissione, coi relativi benefit (significativi solo per i presidenti); due su cinque (un vicepresidente e un segretario) riservate alle opposizioni.

 

Un puzzle difficile da comporre: con un occhio alla competenza dei candidati, l'altro agli equilibri dei partiti e delle coalizioni. La presidenza del gruppo del Pd è convocata in Senato alle 12 di lunedì. Devo quindi partire da Trento col treno delle 7,32 (e non posso partecipare all'Assemblea del Pd trentino, convocata per la sera). Il capogruppo Luigi Zanda riferisce dell'andamento delle trattative nella maggioranza, incrociate tra Camera e Senato. Alla Camera non ci sono problemi particolari: del resto, a Montecitorio, il Pd dispone da solo di una comoda maggioranza assoluta, che si riproduce in tutte le Commissioni, rendendo la questione della presidenza assai meno importante rispetto al Senato, dove i ben diversi rapporti di forza tra i gruppi possono fare dei presidenti degli arbitri abbastanza importanti.

 

E infatti al Senato i problemi ci sono. Il Pdl, riferisce Zanda, chiede in particolare due presidenze: quella della Commissione Giustizia, per l'ex-ministro Nitto Palma, e quella della Commissione Lavori pubblici (che ha anche la competenza sulle comunicazioni, dunque sulle tv), anche se non più per Romani, esponente di punta del partito-azienda, come era parso nei giorni precedenti, ma per Altero Matteoli. Due richieste, a questo punto la prima più che la seconda, difficili da accettare per il Pd, in quanto espressione del conflitto d'interessi di Berlusconi. Zanda dice che su questo punto la trattativa è ancora aperta e che nel pomeriggio si terrà un altro incontro di maggioranza. La presidenza è quindi aggiornata alle 18.

 

Per il resto, le varie caselle sembrano a posto: l'accordo nella maggioranza assegna 7 presidenze al Pd, 6 al Pdl, 1 a Scelta Civica. Tra le presidenze assegnate al Pd non c'è quella della Commissione Esteri, alla quale ero candidato dal gruppo. L'ha chiesta Scelta Civica per Pierferdinando Casini e il Pd non ha potuto dire di no. La notizia non mi coglie impreparato: sapevo delle aspirazioni di Casini e immaginavo che sarebbe stato difficile per me spuntarla contro l'ex-presidente della Camera. Peccato, pazienza. Zanda mi propone come vicepresidente, sempre agli Esteri, ma io preferisco restare capogruppo di commissione (detto tra noi: è meno prestigioso, ma conta di più...). Vicepresidente sarà Paolo Corsini, storico di professione, ex-deputato, soprattutto ex-sindaco di Brescia.

 

Mentre siamo ancora in riunione, alle 13,20, le agenzie danno la notizia della morte di Giulio Andreotti, senatore a vita dal 1991, parlamentare dalla Costituente, sette volte presidente del Consiglio. Non è una sorpresa: sapevo che le sue condizioni di salute da tempo erano peggiorate. Ne era prova il progressivo diradarsi, fino a cessare del tutto, della sua frequentazione dell'Aula e soprattutto della Commissione Esteri, che negli anni passati era sempre stata molto assidua.

 

Ho di Andreotti un giudizio, per dirla in politichese, "articolato". L'ho votato una volta sola, nel lontano 1979. Avevo vent'anni ed era la prima volta che votavo alle politiche (votavo a Roma). Allora Andreotti era schierato con la sinistra Dc, l'area politica nella quale mi riconoscevo: aveva infatti guidato i governi di solidarietà nazionale, aperti al Pci, voluti (e pagati con la vita, giusto il 9 maggio di 35 anni fa) da Aldo Moro.

 

Negli anni successivi, non l'ho più votato. Non solo perché Andreotti è diventato il garante statico dell'equilibrio di potere che ha segnato la stagione più buia (e non a caso terminale) della Prima Repubblica. E neanche solo per il progressivo incalzare delle inchieste giudiziarie contro di lui, per le quali peraltro non ho mai simpatizzato, troppo impropria mi è sempre parsa la pretesa di giudicare la storia nei tribunali.

 

Non l'ho votato e l'ho anzi avversato, perché Andreotti è stato, sul piano per me decisivo della cultura politica, un "cattivo maestro", il cantore e l'incarnazione dello scetticismo antiriformista, del cinismo iperconservatore, del machiavellismo che riduce la politica ad arte della conquista e della conservazione di un potere fine a se stesso. Ho sempre aborrito i suoi popolarissimi aforismi: "il potere logora chi non ce l'ha", o "meglio tirare a campare che tirare le cuoia". Li considero un'efficace descrizione dei vizi pubblici italiani, ma anche la migliore spiegazione della radice culturale e politica dei ritardi, delle omissioni, delle fragilità, dalle quali il nostro Paese non riesce a liberarsi.

 

E tuttavia, Andreotti l'ho "visto da vicino" solo entrando in Senato, nel 2001. Lui era senatore a vita già da dieci anni ed era un ottuagenario ormai lontano dal potere. La sua presenza in Senato si esprimeva in due modi: una garbata ma ferma irriducibilità allo schema bipolare della Seconda Repubblica, che si è sempre tradotta nella caparbia indisponibilità a schierarsi sia col centrosinistra che col centrodestra (memorabile nel 2007 il suo voto contrario alla relazione del ministro D'Alema, colpevole ai suoi occhi di minare la natura bi-partisan della politica estera italiana, voto che provocò una crisi del Governo Prodi); e un'assidua e attenta partecipazione ai lavori della Commissione Esteri, della quale era membro autorevole (e anche attrazione per tutte le delegazioni straniere in visita, che chiedevano una foto-ricordo con l'italiano più famoso nel mondo...).

 

Nel 2006, col Senato spaccato in due come una mela, il voto di Andreotti in Commissione Esteri era diventato decisivo. Andreotti votò come presidente Lamberto Dini, allora in forza al centrosinistra. Ma alla votazione dei due vicepresidenti, votò per il candidato di centrodestra, Alfredo Mantica, anziché per me, candidato del centrosinistra. Fummo eletti entrambi, ovviamente, ma Mantica con un voto più di me. Dopo lo spoglio mi venne vicino e mi disse: "scusami, ma tu capisci, avevo votato Dini...". Come dire: niente di personale, ma se avessi votato per due volte il candidato di centrosinistra, la mia sarebbe diventata un'opzione di schieramento, mentre voglio restare equidistante tra i due poli. Ricordo che Scalfaro, che presiedeva come senatore anziano, mi fece l'occhiolino sorridendo, come a dire "il solito Andreotti...". Addio, Presidente.

 

La notizia della morte di Andreotti condiziona i lavori dell'Aula, convocata per le 17,30, in modo curioso e quasi surreale. Come sempre, i lavori si aprono con la lettura e l'approvazione del verbale della seduta precedente. I grillini, che stanno imparando i trucchi dell'opposizione, hanno chiesto la verifica del numero legale, convinti di "mandare sotto" la maggioranza (è lunedì pomeriggio e ci sono molti assenti, anche perché non sono previste votazioni) facendole fare così una brutta figura. Ma la richiesta di verifica deve essere prontamente sostenuta da dodici senatori, che hanno pochi secondi per pigiare l'apposito pulsante, poi il sistema si blocca.

 

I grillini, ancora non abbastanza allenati, fanno scorrere inutilmente i pochi secondi previsti e quando il sistema si blocca, il tabellone registra solo sette voti di appoggio. Quindi la richiesta è respinta e si passa all'ordine del giorno, non senza aver prima dato la notizia della morte di Andreotti, con il relativo e rituale invito ad un minuto di silenzio. Ma la richiesta della presidente di turno, la nostra Valeria Fedeli, viene accolta da urla di protesta dai banchi grillini: non contro Andreotti e il minuto di silenzio, che ovviamente non si nega a nessuno, ma per il presunto complotto antidemocratico della presidenza che avrebbe loro impedito di chiedere il numero legale. Un banale quiproquo, che toglie ad Andreotti il minuto di silenzio...

 

In Aula è prevista la discussione generale sul Documento di economia e finanza, che sarà votato l'indomani mattina. Una discussione depotenziata dal cambio di governo, che rende il documento un testo politicamente datato. Ma pur sempre un passaggio importante, che allude ad una delle strettoie più impegnative alle quali è atteso il Governo: la definizione di una manovra che destini risorse alla ripresa e all'occupazione, senza compromettere il risanamento dei conti pubblici.

 

Torniamo in presidenza e Zanda ci comunica che Letta ha chiuso l'accordo col centrodestra su Nitto Palma alla Commissione Giustizia. Del resto, noi alla Camera abbiamo proposto Donatella Ferrante, una magistrata anti-berlusconiana, difficile dire di no ad un magistrato filo-berlusconiano al Senato. Esplode il malumore, al quale dà voce in particolare il collega Felice Casson. Zanda raccomanda a tutti senso di responsabilità. Ma Casson prevede difficoltà serie a votare Palma per i nostri in Commissione Giustizia. Ci si aggiorna al mattino successivo.

 

Martedì, alle 9, siamo di nuovo riuniti e Zanda comunica i nomi dei vicepresidenti e dei segretari della maggioranza. Poi si riuniscono i senatori del Pd Commissione per Commissione. Gli unici problemi alla Giustizia. I grillini sarebbero disposti a votare Casson, ma lo strappo nella maggioranza sarebbe troppo forte. Si decide di votare scheda bianca, almeno nelle prime votazioni. In Commissione Esteri tutto bene. Presiede Emilio Colombo, che ricorda Andreotti. Poi viene eletto Casini, i vicepresidenti, i segretari. Per le opposizioni c'è un vicepresidente vendoliano e una segretaria grillina, che mi dice di aver letto e apprezzato il mio disegno di legge di riforma della cooperazione allo sviluppo. Chissà che stavolta non riusciamo a portarla in porto, la riforma. Casini promette la massima collaborazione.

 

In Commissione Giustizia è stallo. Senza il nostro voto Palma non passa. Ma Scelta Civica e la Svp ballano, incerti se seguire il Pd o accettare l'accordo. Karl Zeller mi chiama nella sua stanza e mi esprime tutto il disagio degli autonomisti, alquanto irritati per come sono stati trattati dal Pd. Ha ragione. In Trentino Alto Adige, come centrosinistra autonomista, alle elezioni abbiamo vinto tutto quello che si poteva vincere. Ed è grazie ai 140.000 voti autonomisti, se il Pd ha incassato il cospicuo premio di maggioranza alla Camera. Ma non solo nessuno del centrosinistra autonomista trentino-altoatesino-sudtirolese è stato scelto per guidare un ministero o una commissione parlamentare, ma gli unici membri del governo che hanno a che fare con Trento o Bolzano sono Biancofiore e Ferrazza. Insomma, oltre al danno anche la beffa.

 

Non è tutto. La morte di Andreotti, che si era iscritto al Gruppo per le autonomie, mette a repentaglio l'esistenza stessa del gruppo (servono almeno dieci senatori) e Zeller torna a chiedermi di aderire. Gli rispondo che non ho nulla in contrario, purché il Pd sia d'accordo. Andiamo insieme da Zanda, che s'impegna a trasmettere a Letta la protesta della Svp per la composizione del Governo e a trovare un senatore del Pd, ma diverso da me, per sostenere il Gruppo per le autonomie. Ricorda a Zeller che l'indomani, mercoledì mattina, l'Aula del Senato eleggerà un senatore autonomista (Berger) nell'Ufficio di presidenza...

 

Mercoledì, a ora di pranzo, vado alla sede di Libertà Eguale, una piccola ma prestigiosa associazione di cultura politica riformista, presieduta dal mio amico ed ex-collega Enrico Morando. C'è un piccolo gruppo di parlamentari, del Pd e di Scelta Civica, disposti ad autotassarsi per sostenere l'associazione e ad utilizzarla per incalzare il Governo Letta-Alfano sul terreno delle riforme, sia socio-economiche che istituzionali. Nel pomeriggio, alla quarta votazione, Nitto Palma viene eletto, senza i voti del Pd.

 

Giovedì mattina, riunione da Zanda per definire i senatori Pd da designare nelle delegazioni italiane alle assemblee parlamentari di organismi internazionali (Consiglio d'Europa, Osce, Nato, ecc.). Io andrò alla Nato, pur sempre una creatura degasperiana...

 

Nel pomeriggio riparto per Trento. Sabato l'Assemblea nazionale del Pd convoca il Congresso del partito ed elegge segretario, fino ad ottobre, Guglielmo Epifani. Io non voto in Assemblea e quindi non ci sono andato. Ma condivido le decisioni prese. Ho preferito andare alla presentazione dell'Agenda Trentino 2033, proposta da Gianni Bonvicini, Mario Raffaelli ed altri autorevoli amici. Le elezioni provinciali si avvicinano.

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