È stata la settimana parlamentare più lunga e drammatica, da molti anni in qua, ma si è chiusa con un risultato positivo: Giorgio Napolitano è stato rieletto presidente della Repubblica italiana. I lettori di questo mio doveroso rendiconto settimanale sanno bene quale fosse la gerarchia delle mie preferenze, rispetto alla scelta del nuovo presidente, perché ne avevo parlato diffusamente la scorsa settimana: al primo posto un rinnovo del mandato a Napolitano, per il tempo necessario a fare le riforme istituzionali, compresa quella dell'elezione diretta del presidente della Repubblica, sul modello francese; al secondo posto, un presidente di larga convergenza, dotato di adeguata autorevolezza internazionale (e in questo caso il nome di Giuliano Amato mi pareva il migliore); al terzo posto, dinanzi alla necessità di eleggere, dal quarto scrutinio in poi, un presidente per così dire, "di maggioranza", il nome più forte, anche sul piano internazionale, mi sembrava fosse quello di Romano Prodi.
Il Partito democratico è stato al tempo stesso il luogo primario della decisione e l'epicentro di tutte le difficoltà. Anche se non sono mancate, come vedremo, responsabilità altrui. Come avevo scritto la settimana scorsa, la rielezione di Napolitano nell'ambito di un patto per le riforme appariva (almeno a me) la più desiderabile, ma anche (obiettivamente) la più difficile. E infatti i partiti, a cominciare dal Pd, hanno seguito un altro schema, partendo da quello di una larga convergenza attorno ad un candidato unitario. Già, ma con quale profilo? Il Pdl ha chiesto e imposto al Pd un candidato "politico", bocciando l'ipotesi, suggerita in particolare da Walter Veltroni, di sottoporre a tutte le forze politiche, la proposta di una "personalità di garanzia", sul modello di Ciampi. Come poteva essere, ad esempio, il giudice costituzionale Sabino Cassese, o lo stesso presidente della Consulta, Ettore Gallo. Niente da fare: il Pdl non ha accettato neppure la proposta di eleggere Sergio Mattarella, oggi giudice costituzionale, in passato esponente della Dc e poi dell'Ulivo. Voleva un politico a tutto tondo, di centrosinistra: Amato, Marini, D'Alema, Finocchiaro, Violante...
L'errore di Bersani è stato quello di accettare questa imposizione del Pdl, offrendo così il fianco alla propaganda grillina, che rifiutava la logica dell'accordo e si era trincerata dietro la sua "rosa", selezionata attraverso (improbabili) primarie on-line e ricca di autorevoli personalità, sia politiche che della società civile, accomunate tuttavia dall'essere o apparire "di frontiera" e anche "di rottura": una caratteristica non facilmente componibile con la lettera e lo spirito della Costituzione, che prescrive una maggioranza comunque qualificata per l'elezione del cittadino a cui spetta l'onore e l'onere di garantire il rispetto della Costituzione e di promuovere l'unità nazionale.
Nella giornata di mercoledì, Bersani si è quindi incontrato con Berlusconi e ha concordato con lui di proporre ai grandi elettori di votare Franco Marini. Al segretario del Pd pareva infatti che sul nome dell'ex-segretario della CISL ed ex-presidente del Senato potessero convergere consensi in misura maggiore che sugli altri candidati della "rosa" politica di centrosinistra, compreso Giuliano Amato. Ad esempio, la Lega si era pronunciata con un netto No ad Amato, così come Sel, che invece, come la Lega, era possibilista su Marini.
Il secondo errore di Bersani è stato quello di convocare l'assemblea dei grandi elettori di centrosinistra dopo e non prima dell'accordo con Berlusconi. Si è così messo (e ha messo l'assemblea) in una trappola: o si accettava Marini, o si smentiva Bersani. L'assemblea, convocata al teatro Capranica mercoledì sera, ha sbandato, è esplosa anche emotivamente, lacerata tra la lealtà al segretario e la difficoltà di spiegare alla base, soprattutto da parte dei deputati più giovani, una scelta che appariva in contraddizione con l'impegno, più volte reiterato da Bersani, di non fare accordi col Cavaliere. Messe così le cose, io ho votato in assemblea a favore della proposta di Bersani e ho poi disciplinatamente deposto un voto per Marini, la mattina dopo nell'urna di Montecitorio.
Ma ormai la frittata era fatta. L'assemblea si era conclusa in modo drammaticamente confuso e polemico, tra urla e lacrime. Un centinaio di grandi elettori avevano abbandonato i lavori. E la proposta di votare Marini era stata approvata da una striminzita maggioranza semplice. Bersani, terreo, non aveva neppure tenuto il discorso di replica, alla fine del dibattito. C'erano tutte le premesse della disfatta di Marini nella prima votazione, convocata per giovedì mattina alle 10. E infatti Marini, giovedì mattina, si è fermato a 521 voti, ben 150 al di sotto della soglia dei due terzi prescritta dalla Costituzione per eleggere il presidente nei primi tre scrutini. Sel ha votato Rodotà, proposto dai grillini, e i renziani hanno reso visibile il loro dissenso votando Chiamparino. Molti altri democratici hanno disperso il voto in varie direzioni.
Tra le polemiche interne e le battute sarcastiche del centrodestra, la proposta di Marini viene ritirata e alla seconda votazione, giovedì pomeriggio, votiamo scheda bianca. Nel frattempo si discute sul da farsi. Nella notte tra giovedì e venerdì matura la svolta di 180 gradi: bocciato Marini, è impossibile convergere su un altro nome della rosa. Dall'accordo con Berlusconi, che pure aveva votato lealmente Marini e al quale dunque non potevamo rimproverare nulla, si passa quindi alla prova di forza. Mettendo in campo il nome più autorevole, il candidato più prestigioso del Pd: Romano Prodi. È una sberla in faccia al Pdl: Capezzone in Transatlantico mi dice che peggio di Prodi per Berlusconi forse c'è solo la Bocassini. Ma a quel punto, per Bersani e per il gruppo dirigente del Pd conta una cosa sola: tenere unito il partito. E nessuno può riuscirci meglio di Prodi, il padre dell'Ulivo. Sarà la statura, anche internazionale, di Prodi che lo aiuterà, dopo l'elezione, a diventare comunque il presidente di tutti. Come ha saputo fare Napolitano.
Naturalmente i voti di centrosinistra, quindi compresi i vendoliani, non bastano. Ma nel Pd c'è chi spera nella confluenza di Cinque Stelle: del resto, Prodi figurava nella rosa grillina e lo stesso Grillo aveva fatto balenare l'ipotesi di un ritiro di Rodotà a favore del Professore. Ma la speranza dura poche ore. I capigruppo del M5S annunciano che Rodotà resta in campo e chiedono che sia il Pd a votarlo. È l'ennesima conferma che il M5S non vuole allearsi col Pd contro Berlusconi, ma vuole spaccare il Pd, vuole distruggerlo, per trasformare il bipolarismo nella lotta tra due populismi, sulle macerie del paese.
Per eleggere Prodi resta in piedi solo la speranza di un aiuto da parte dei montiani. Che prima però vogliono una prova di unità da parte del Pd sul nome di Prodi. Se questa ci sarà venerdì pomeriggio, sabato mattina sono disponibili a far eleggere Prodi. Non sembra, l'unità del centrosinistra, un obiettivo irraggiungibile: al mattino presto di venerdì si riunisce di nuovo l'assemblea dei grandi elettori del Pd e alla proposta di Bersani di votare Prodi scatta l'applauso, che diventa standing ovation e poi voto all'unanimità per alzata di mano. Vendola, a sua volta, è nettamente su Prodi.
Alla terza votazione, l'ultima col quorum alto, votiamo ancora scheda bianca. Poi, venerdì pomeriggio, il quorum si abbassa alla maggioranza assoluta e votiamo Prodi. L'ho votato anch'io e non solo per disciplina (che pure per me è un valore importante, complementare a quello della libertà di espressione). Vado nell'ufficio di Veltroni al partito (Walter non è più deputato), ad assistere allo spoglio attraverso la tv. I voti per Prodi arrivano, ma più lenti di quanto ci si aspettava. Monta la preoccupazione, che diventa sgomento, quando il totalizzatore si ferma a 395: il fondatore dell'Ulivo è stato affondato da 101 franchi tiratori di centrosinistra. Una cinquantina sono la prevista espressione di mal di pancia correntizi: qualche mariniano in cerca di vendetta, qualche dalemiano preoccupato, c'è perfino un voto a Veltroni (ma vi garantisco che non è il mio). Quelli che non erano previsti sono gli altri 50 voti, tutti andati a Rodotà. Dunque ci sono 50 parlamentari democratici che, fra Prodi al Quirinale e la protesta, fine a se stessa, sul nome di Rodotà, preferiscono quest'ultima. Veramente gli dei acciecano quelli che vogliono mandare in rovina...
Lo sgomento diventa panico. La Bindi rende note le sue dimissioni, rassegnate a Bersani già da diverso tempo. Alle 22 è convocata l'assemblea dei grandi elettori pd. Bersani è più addolorato e nauseato che arrabbiato. Chiama traditori i franchi tiratori (che mercoledì sera un veterano come Walter Tocci aveva esaltato come guardiani della democrazia...) e annuncia le sue dimissioni, che diverranno esecutive, dice, appena eletto il presidente della Repubblica. Chiede di votare scheda bianca nella seduta di sabato mattina (la quinta). L'assemblea si scioglie e i grandi elettori formano in piazza Capranica numerosi capannelli, dove domina la preoccupazione per il partito e per il paese. Lo scenario da incubo è un Pd che perde il diritto di proposta e deve rassegnarsi a scegliere tra il voto per Rodotà, diventando la sesta stella di Grillo, e quello per la Cancellieri, al traino dell'accordo, di cui si vocifera, tra Monti e Berlusconi.
Nella notte si fa strada, sia nel Pd, che nel Pdl e tra i montiani, la consapevolezza che l'unica strada per evitare l'esplosione del quadro politico-parlamentare e l'avventurosa elezione di un presidente di scontro, è quella di una rinnovata, congiunta pressione su Napolitano, perché accetti la rielezione. A ora di pranzo, Napolitano cede. Sul suo nome il Pd si ricompatta, ma Sel si sfila, annunciando il voto per Rodotà. Che accetta così di contrapporre il suo nome non solo a quello di Prodi, ma anche a quello di Napolitano.
In Transatlantico incrocio Lorenzo Dellai: insieme sin dall'inizio avevamo auspicato la rielezione di Napolitano, pur nello scetticismo sulla sua praticabilità. E abbiamo lavorato, ciascuno nel suo partito, per questo obiettivo condiviso. Ci scambiamo i rallegramenti. Poi si vota. Inutile dire come ho votato. Tra gli applausi, Giorgio Napolitano è rieletto con 738 voti, più dei due terzi dei grandi elettori. Rodotà si ferma a 217. I franchi tiratori pd si ridimensionano a 9. Fuori Montecitorio si raduna una (piccola) folla: alcune centinaia, forse un migliaio di persone che protestano contro l'inciucio e la restaurazione. LaValsugana.it esce con un'immagine del Congresso di Vienna.
Non condivido questa lettura, anche se il rischio di inconcludenza riformatrice c'è ed è alto. Ma l'unico modo per dimostrare che non si tratta di Restaurazione, ma di Riforma, è fare in modo che tra un anno, due al massimo, i cittadini italiani (e non più i mille grandi elettori) siano chiamati ad eleggere il loro presidente, come in Francia. Insieme, come in Francia, ad una Camera di 500 deputati, scelti col doppio turno di collegio, mentre il Senato diventa il nostro Bundesrat e abbiamo così anche il dimezzamento dei parlamentari.
Torno a Trento domenica mattina. Già domani, lunedì, bisogna tornare a Roma. Alle 17, nell'aula di Montecitorio, c'è il giuramento del presidente. E il suo atteso (e temuto) discorso. Poi al lavoro per fare un governo. E per rimettere in sesto il partito.
(Concludo segnalandovi che la settimana in Senato si era aperta martedì con la discussione e l'approvazione di una mozione (prima firma Zanda) per la ricostituzione della Commissione speciale sui diritti umani. Chi volesse leggere il mio intervento di illustrazione della mozione, sappia che può trovarlo sul mio sito www.giorgiotonini.it