È stata la settimana dei paradossi. Vediamoli uno per uno. Dopo la breve pausa pasquale, la settimana parlamentare è cominciata in Senato martedì pomeriggio alle 15 con una seduta d'aula. All'ordine del giorno c'era un punto molto importante: la discussione ed eventuale approvazione della Relazione del Governo (Monti) al Parlamento, sulle nuove prospettive di crescita dell'economia e sull'andamento dei conti pubblici per gli anni 2013-2014. (Potete trovare questo sintetico e molto interessante documento al seguente indirizzo elettronico: http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede_v3/docnonleg/24449.htm . Vi consiglio in particolare di dare uno sguardo alla Tavola 2, dalla quale si evince che le uniche voci di spesa che continuano a crescere sono interessi sul debito e pensioni).
La Relazione discussa e approvata martedì scorso è una sorta di anticipazione del Def (il documento di economia e finanza, in pratica lo strumento di programmazione annuale della politica economica del governo), che il Governo è tenuto a presentare al Parlamento entro il 10 aprile e che quest'anno fornirà previsioni e proiezioni relative a tutto l'arco della legislatura.
Ecco allora il primo paradosso: a proporre queste proiezioni e previsioni, si badi bene, relative a tutto l'arco della legislatura, teoricamente 2013-2018, non sarà il governo scaturito dalle elezioni del 24 e 25 febbraio scorsi, che come è noto ancora non c'è, né si vede all'orizzonte, ma il Governo Monti, costretto ad operare in regime di ordinaria amministrazione (o meglio, "per il disbrigo degli affari correnti", come recita la formula di rito).
Questo primo paradosso ci rinvia alla crisi politica in atto e che ha visto il presidente della Repubblica di fatto "gettare la spugna" e arrendersi dinanzi ai veti incrociati dei tre maggiori partiti in Parlamento. Sulla condotta di Napolitano sono state scritte tante sciocchezze, si è parlato di forzature della Costituzione, di repubblica presidenziale, perfino di golpe strisciante. La realtà è molto più semplice e molto più limpida.
Nei giorni di Pasqua, Napolitano si è trovato nell'impossibilità di intraprendere alcuna delle strade che la Costituzione (e la prassi) gli ponevano davanti: 1) non poteva nominare un presidente del consiglio, da mandare in Parlamento per la fiducia, perché tre (tre!) giri di consultazioni avevano certificato l'inesistenza, almeno allo stato, di una maggioranza politica. 2) non poteva nominare un "governo del presidente", per l'esplicita contrarietà di tutte le forze politiche, tranne i montiani, oltre che per l'evidente assurdità di un atto del genere da parte di un presidente in scadenza di mandato. 3) Non poteva e non può sciogliere le camere, per esplicito divieto costituzionale (semestre bianco). Avrebbe potuto fare solo una cosa: dimettersi (e a quanto mi risulta è stato a un passo dal farlo), ma lo hanno sconsigliato di intraprendere questa strada la valutazione sull'impatto anche psicologico (e tutti sappiamo quanto la psicologia pesi ad esempio sull'economia...) che questa decisione avrebbe avuto, in Italia e fuori, insieme alla constatazione che non si sarebbe guadagnato granché sul piano dei tempi. Insomma il gioco non valeva la candela.
Dinanzi a questo blocco, al presidente non è rimasta altra alternativa che quella di fermarsi, in attesa dell'elezione del nuovo PdR, contando sul governo in carica per garantire l'ordinaria amministrazione, come Costituzione prevede. Napolitano ha voluto dare al paese l'immagine di un'attesa comunque operosa, mettendo al lavoro due commissioni, incaricate di fare una ricognizione dei punti di contatto e di contrasto, tra le forze politiche, sui temi urgenti dell'economia e delle riforme istituzionali.
Tra venti giorni ci sarà il nuovo presidente e sarà lui (o lei) a prendere una delle strade che Napolitano ha trovato interrotte, male che vada quella dello scioglimento. Nel decidere cosa fare, gli /le potrà tornare utile (certamente non dannoso) quell'appunto redatto dai 10 saggi. Se poi le forze politiche vorranno assumere l'appunto, trasformandolo nel cuore del programma di un governo, ben venga (personalmente me lo auguro): ma saranno state comunque loro, le forze politiche rappresentate in Parlamento, a decidere, non altri. Quindi nessuno strappo alla Costituzione.
Tornando alla Relazione, la sua importanza sta nella previsione di un significativo stanziamento per il pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni verso le aziende fornitrici: una misura non facile da realizzare, sul piano tecnico, dati i vincoli europei, ma assolutamente necessaria per evitare l'asfissia del nostro sistema produttivo.
Ed ecco il secondo paradosso di questa settimana parlamentare: Camera e Senato hanno votato all'unanimità la Relazione del governo. Una cosa mai successa prima. Non era mai successo, almeno a mia memoria, che il centrodestra votasse il Def del centrosinistra, o viceversa. E perfino con Monti, Lega e Idv hanno sempre votato contro. Certo, ha aiutato il contenuto della Nota: lo sblocco del pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni nei riguardi delle imprese. Resta il fatto che una convergenza parlamentare così ampia non si era mai vista. E l'ha fatta registrare lo stesso Parlamento che non riesce a esprimere la fiducia ad alcuna ipotesi di governo.
il voto unanime di martedì sera, insieme agli applausi scroscianti che hanno unito l'intero emiciclo alla appassionata dichiarazione di voto, a nome del Pd, del collega Gian Carlo Sangalli (ex direttore degli artigiani della CNA), è stato a mio modo di vedere la riprova che il nuovo Parlamento, composto in grandissima parte di matricole, ha voglia di fare qualcosa di utile al paese e che non ci sono ostacoli di natura programmatica alla formazione di un governo, ma solo di rapporti più o meno simbolici tra le forze politiche.
E che un governo dal basso profilo politico e concentrato su due grandi capitoli programmatici (politiche per la crescita e l'occupazione, insieme alle necessarie riforme istituzionali, guarda caso gli argomenti di cui si occupano i 10 saggi quirinalizi) potrebbe avere un larghissimo consenso parlamentare. Prima o poi, Bersani, Berlusconi e Grillo dovranno fare i conti con questo dato della realtà.
La settimana è proseguita mercoledì con altre votazioni in aula. Sono state respinte le dimissioni di una senatrice grillina, presentate pochi giorni dopo le elezioni, per non meglio precisate ragioni personali. Tutti i gruppi, a parte M5S, hanno votato contro, chiedendo alla senatrice dimissionaria di venire in aula a motivare la sua richiesta, in modo da fugare ogni possibile dubbio che si tratti di un'indebita pressione politico-partitica sulla libera coscienza di un parlamentare, come tale tutelata dalla Costituzione (articolo 67, contestato dai grillini: "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato"). Ecco così il terzo paradosso della settimana: il M5S, nato in feroce opposizione ai partiti, si sta rivelando il partito più... "partitocratico".
Giovedì pomeriggio ho concluso la mia settimana romana alla Luiss, partecipando ad una tavola rotonda promossa dagli universitari cattolici della FUCI, sul tema: partito cattolico o cattolici nei partiti? Oltre a me hanno reso la parola Paola Binetti dell'Udc e Cosimo Latronico del Pdl. Per parte mia ho sostenuto che la stagione dell'unità politica dei cattolici è chiusa da un pezzo e che i cattolici presenti nei diversi partiti dovrebbero lavorare insieme per far affermare il primato del criterio del bene comune su quello della lotta contro l'avversario visto come nemico.
Martedì si ricomincia con l'assemblea del gruppo Pd del Senato. All'ordine del giorno, l'elezione della presidenza del gruppo e un confronto sulla situazione politica.
Buona domenica.