Alla vigilia della seconda guerra mondiale, Emmanuel Mounier osservava con angoscia dove avesse portato l'Europa il prevalere della dottrina di Carl Schmitt, secondo la quale l'atto originario e fondativo dell'agire politico è "l'individuazione del nemico". E come si dovesse opporre, a quella sconsiderata visione, il personalismo cristiano, matrice fondamentale del pensiero democratico, per il quale il movente essenziale della politica è "l'amore per il prossimo".
A quasi tre quarti di secolo, quelle pagine di Mounier conservano un'impressionante attualità. Davanti a noi, democratici italiani, non c'è il nazismo, né la seconda guerra mondiale. Eppure, a ben guardare, i dilemmi politici e morali che abbiamo dinanzi, in un passaggio storico comunque drammatico per il nostro paese, sono in buona sostanza riconducibili a quell'alternativa: tra pensare e agire innanzi tutto "contro l'avversario politico", costi quel che costi; e pensare e agire soprattutto "per il bene del paese", anche accettando, sul piano sia politico che programmatico, la prospettiva sanamente realistica, non del "male minore", perché non è mai lecito fare il male, ma del "bene possibile".
In fondo, è a questa scelta, nella sua radicale essenzialità, che ci ha richiamato il presidente Napolitano, con la sua instancabile ricerca di una via di uscita costruttiva dalla pericolosa crisi politica nella quale si dibatte un paese, il nostro, provato e piegato dalla più grave crisi economica e sociale dalla seconda guerra mondiale ad oggi. Sarebbe dunque sbagliato minimizzare o sottovalutare la decisione del Capo dello Stato di dar vita ad un comitato di saggi, espressione delle diverse visioni politiche presenti in parlamento, incaricato di elaborare proposte condivise attorno alle due questioni, drammaticamente urgenti, dinanzi alle quali si trova il paese: innanzi tutto, come impiegare la riconquistata credibilità internazionale ed europea dell'Italia, che è il risultato più prezioso del governo Monti, per sollecitare quella correzione nella gerarchia degli obiettivi dell'Unione, dal primato del rigore e del risanamento finanziario a quello della promozione della crescita e dell'occupazione, che è essenziale per scongiurare il pericolo, altrimenti incombente, che la recessione in atto nel nostro paese degeneri in una vera e propria depressione; e poi, come rendere utili, dal punto di vista della governabilità del paese e del recupero di credibilità ed autorevolezza della politica, le probabilmente inevitabili elezioni anticipate, mettendo in opera quelle riforme costituzionali, istituzionali, elettorali, che le forze politiche presenti nel parlamento appena cessato non sono riuscite a realizzare, come pure si erano impegnate a fare, durante il governo dei tecnici.
Sembrerebbero tre le condizioni necessarie al successo della coraggiosa iniziativa del presidente Napolitano. La prima è che i saggi non confondano la necessaria essenzialità, che deve caratterizzare le loro proposte, con un invece deprecabile minimalismo. Ad esempio, sul piano delle riforme istituzionali, sarebbe un tragico errore se ci si limitasse, ripercorrendo la strada senza uscita imboccata nella scorsa legislatura, a proporre modesti correttivi alla legge elettorale. Non fosse altro perché in tal modo si lascerebbe ancora una volta inevasa la domanda di drastica riduzione del numero dei parlamentari. Per non dire dell'inutilità di interventi che non affrontino la questione decisiva: come mettere le istituzioni al riparo dai problemi di funzionalità prodotti dalla crisi dei partiti. Solo un accordo di alto profilo, che tenga insieme unità e innovazione, è insomma un compromesso realistico. Per questo è auspicabile che dal lavoro dei saggi emerga un rilancio dell'unica ipotesi di "mediazione alta" emersa dal dibattito pubblico: semipresidenzialismo alla francese, legge elettorale basata sul doppio turno di collegio, legge sul conflitto d'interessi, riduzione dei deputati a cinquecento e riforma del senato sul modello del Bundesrat tedesco, col conseguente raggiungimento anche dell'obiettivo del dimezzamento dei parlamentari. L'Italia tornerebbe a correre.
La seconda condizione di successo è la disponibilità delle forze politiche, o perlomeno di un arco maggioritario di esse, ad orientare nella direzione proposta da Napolitano le decisive scelte politiche delle settimane che abbiamo davanti: a cominciare dall'elezione del nuovo presidente della Repubblica, che dovrà anch'essa ispirarsi al duplice criterio di una larga convergenza parlamentare e di una chiara scelta di cambiamento. Il (o la) successore di Napolitano dovrà essere infatti il/la garante di questo difficile percorso, innanzi tutto individuando la soluzione più coerente con esso, alla decisiva questione del governo.
La terza condizione è il radicale rinnovamento dell'offerta politica. Su questo terreno decisivo, è atteso il congresso, con annesse "primarie" tra tutti i nostri elettori, del Partito democratico: un congresso che non potrà non fare i conti con la sconfitta elettorale e ancor più con la disfatta politica registrate in queste settimane. Si è trattato infatti, con assoluta evidenza, di un esito dovuto non a fatti congiunturali, ma ad una errata impostazione strategica: aver abbandonato la "vocazione maggioritaria" che aveva dato origine al Pd, ovvero la programmatica ricerca di consensi ben oltre la cerchia del tradizionale elettorato di sinistra, proprio nel pieno della crisi del berlusconismo, quando milioni di elettori erano alla ricerca di nuovi punti di riferimento, si è rivelata una scelta suicida per il partito e disastrosa per il paese. Una scelta tanto più incomprensibile da parte di un partito che aveva deciso, certo non a cuor leggero, di sostenere il governo Monti, con gli inevitabili costi, in termini di impopolarità immediata, che questa strada comportava, e che a maggior ragione avrebbe quindi dovuto cercare di compensare l'inevitabile perdita di consensi tradizionali, con la conquista di elettori nuovi.
Sarebbe peraltro un errore se il congresso del Pd fosse impostato secondo la logica faziosa e settaria del nemico, in questo caso interno. Ma la necessaria ricerca di convergenze larghe andrà costruita attorno a proposte chiare e non svilita attraverso accordi di spartizione tra leadership di partito e candidatura alla premiership, che devono rimanere identificate nella medesima persona, pena l'ulteriore depotenziamento di quella carica innovativa del Pd, che è essenziale per affrontare la crisi del paese.