Lunedì sera sapremo, insieme a tante altre cose più grandi e importanti, se il centrosinistra autonomista trentino sarà riuscito a spezzare l'incantesimo che non gli ha mai consentito di vincere il collegio senatoriale di Pergine e del Trentino orientale. Mai vuol dire mai. Dal 1994 ad oggi, cioè da quando si vota col maggioritario, in questo collegio ha sempre vinto il centrodestra: la prima volta con Boso, poi due volte con Gubert e altre due con Santini. Eppure, il centrosinistra autonomista, anche nel Trentino orientale, è sempre risultato vincente alle elezioni per noi più importanti, quelle provinciali.
Come si spiega questa contraddizione? E come si può pensare di superarla? Sono le due domande che mi sono posto poco meno di un mese fa, quando ho avuto il grande onore di essere candidato dal centrosinistra autonomista (Patt-Svp, Pd e Upt) proprio su questa difficile frontiera. Al termine di una campagna elettorale tanto breve quanto intensa, dopo decine e decine di incontri con gli interlocutori più diversi, non posso dire di avere certezze, ma un'idea meno approssimativa credo di averla maturata, nel confronto con tanti elettori.
La ragione fondamentale del divario tra il voto provinciale e quello politico mi pare vada ricercata nella persistente incapacità del centrosinistra nazionale (a cominciare dal mio partito, il Pd) a rappresentare un'area vasta e maggioritaria di italiani: quelli che abitano nei piccoli centri e che si guadagnano da vivere sul mercato (agricoltori, operai, artigiani, commercianti, piccoli e medi imprenditori). Il centrosinistra nazionale è invece da sempre maggioritario nelle aree urbane e tra quanti vivono di spesa pubblica, come gli impiegati, gli insegnanti, gli operatori socio-sanitari e così via. Si tratta di due Italie che guardano in modi assai diversi tra loro a temi cruciali nel dibattito politico: basti pensare a come vive il proprio rapporto col fisco, o con la giustizia, o con gli immigrati, ad esempio un insegnante, e come lo vive invece un artigiano, o anche un operaio.
Non si tratta naturalmente, per noi democratici, di rinunciare al primato che abbiamo conquistato nelle città e che è un grande punto di forza del nostro insediamento politico ed elettorale, ma di prendere atto che la maggioranza degli italiani è altrove e che quindi, se vogliamo governare l'Italia con il consenso della maggioranza degli elettori, dobbiamo riuscire a parlare di più e meglio anche all'Italia profonda, quella che va meno sui media, perché vive e lavora in contesti più appartati, ma che poi vota e decide.
Il centrosinistra autonomista, in Trentino, è riuscito in questa impresa, e infatti governa la Provincia autonoma da quasi vent'anni, perché ha saputo saldare, anche grazie alla leadership di Lorenzo Dellai, la forza del Pd nelle aree urbane, con il radicamento dell'Upt e del Patt nelle vallate.
Il collegio senatoriale del Trentino orientale è l'unico, nella nostra provincia, nel quale l'area urbana è del tutto minoritaria, concentrata attorno a Pergine, la terza città del Trentino, ma dal peso relativo assai inferiore, nel collegio, a quello di Trento o dell'area Rovereto-Riva-Arco negli altri due collegi. Si spiega così, almeno in parte, l'anomalia del comportamento elettorale del Trentino orientale. Nelle passate tornate elettorali politiche, i candidati del centrosinistra autonomista nel collegio senatoriale di Pergine hanno dovuto fare i conti con due grandi handicap insieme: la debolezza (e la demotivazione) dell'elettorato democratico e la fuga, di una parte dei loro elettori alle provinciali, dal voto ad un centrosinistra nazionale vissuto come estraneo e lontano dalle preoccupazioni, dagli interessi e perfino dai linguaggi di chi vive nelle valli e lavora sul mercato. La scelta di candidati moderati da parte del centrodestra, come Gubert e Santini, ha fatto il resto.
Questa volta abbiamo provato a cambiare schema. Abbiamo candidato un esponente del Pd, nell'intento di motivare e impegnare quest'area dell'elettorato. E soprattutto abbiamo cercato di parlare a quella vasta parte di elettori che si sente lontana dal centrosinistra nazionale, ma che ha perso ogni fiducia e speranza nel centrodestra, sia nella versione berlusconiana che in quella leghista. Abbiamo cercato di parlare a questi elettori presentando l'accordo per i collegi del senato per quello che esso è, una proiezione nel parlamento nazionale della stessa coalizione che ha governato a lungo e bene il Trentino e che oggi si presenta unita per portare a Roma i due capisaldi sui quali ha basato il suo successo: la cultura dell'autonomia delle genti di montagna, contro tutte le tentazioni neocentraliste, sia romane che padane; e la cultura dell'interclassismo, della saldatura tra città e valli, tra mercato e spesa pubblica, tra lavoro dipendente e iniziativa privata. Due capisaldi da intendere in modo creativo e innovativo e non difensivo: perché l'autonomia si può salvaguardare solo stringendo alleanze nazionali (come quelle, parallele e convergenti, tra Svp-Patt e Pd da una parte e Upt e Scelta civica dall'altra) in una prospettiva di riforma dello Stato e del suo rapporto con i territori, a cominciare da quelli montani; e perché l'interclassismo non può più contare, né a Roma né a Trento, sul potente coadiuvante di un'abbondante spesa pubblica, ma deve tradursi in un patto per le riforme economiche e sociali, finalizzate a innalzare in modo deciso la produttività del sistema pubblico e ad alleggerire il carico fiscale, ormai insostenibile, che grava sull'impresa e sul lavoro.
Sapremo lunedì sera se la proposta del centrosinistra autonomista avrà saputo conquistare a questo ambizioso progetto politico almeno una parte degli elettori delusi dal fallimento del centrodestra. O se invece, su entrambi i fianchi dello schieramento politico italiano, anche da noi avrà finito col prevalere il voto di protesta: certo legittimo, mai come ora comprensibile e giustificato, per la sofferenza vera che vivono tante famiglie, tante imprese, tanti lavoratori, e per la pessima prova di sé che ha dato la politica nazionale. Ma comunque un voto sterile e pericoloso, sia per la nostra autonomia che per il nostro paese.
Qualunque sarà l'esito del voto, una cosa possiamo dire di averla imparata: la strada per diventare maggioranza nel paese, per il centrosinistra nazionale, passa anche per la Valsugana, le valli di Fiemme e Fassa, il Primiero, Lavarone e Luserna.Lunedì sera sapremo, insieme a tante altre cose più grandi e importanti, se il centrosinistra autonomista trentino sarà riuscito a spezzare l'incantesimo che non gli ha mai consentito di vincere il collegio senatoriale di Pergine e del Trentino orientale. Mai vuol dire mai. Dal 1994 ad oggi, cioè da quando si vota col maggioritario, in questo collegio ha sempre vinto il centrodestra: la prima volta con Boso, poi due volte con Gubert e altre due con Santini. Eppure, il centrosinistra autonomista, anche nel Trentino orientale, è sempre risultato vincente alle elezioni per noi più importanti, quelle provinciali.
Come si spiega questa contraddizione? E come si può pensare di superarla? Sono le due domande che mi sono posto poco meno di un mese fa, quando ho avuto il grande onore di essere candidato dal centrosinistra autonomista (Patt-Svp, Pd e Upt) proprio su questa difficile frontiera. Al termine di una campagna elettorale tanto breve quanto intensa, dopo decine e decine di incontri con gli interlocutori più diversi, non posso dire di avere certezze, ma un'idea meno approssimativa credo di averla maturata, nel confronto con tanti elettori.
La ragione fondamentale del divario tra il voto provinciale e quello politico mi pare vada ricercata nella persistente incapacità del centrosinistra nazionale (a cominciare dal mio partito, il Pd) a rappresentare un'area vasta e maggioritaria di italiani: quelli che abitano nei piccoli centri e che si guadagnano da vivere sul mercato (agricoltori, operai, artigiani, commercianti, piccoli e medi imprenditori). Il centrosinistra nazionale è invece da sempre maggioritario nelle aree urbane e tra quanti vivono di spesa pubblica, come gli impiegati, gli insegnanti, gli operatori socio-sanitari e così via. Si tratta di due Italie che guardano in modi assai diversi tra loro a temi cruciali nel dibattito politico: basti pensare a come vive il proprio rapporto col fisco, o con la giustizia, o con gli immigrati, ad esempio un insegnante, e come lo vive invece un artigiano, o anche un operaio.
Non si tratta naturalmente, per noi democratici, di rinunciare al primato che abbiamo conquistato nelle città e che è un grande punto di forza del nostro insediamento politico ed elettorale, ma di prendere atto che la maggioranza degli italiani è altrove e che quindi, se vogliamo governare l'Italia con il consenso della maggioranza degli elettori, dobbiamo riuscire a parlare di più e meglio anche all'Italia profonda, quella che va meno sui media, perché vive e lavora in contesti più appartati, ma che poi vota e decide.
Il centrosinistra autonomista, in Trentino, è riuscito in questa impresa, e infatti governa la Provincia autonoma da quasi vent'anni, perché ha saputo saldare, anche grazie alla leadership di Lorenzo Dellai, la forza del Pd nelle aree urbane, con il radicamento dell'Upt e del Patt nelle vallate.
Il collegio senatoriale del Trentino orientale è l'unico, nella nostra provincia, nel quale l'area urbana è del tutto minoritaria, concentrata attorno a Pergine, la terza città del Trentino, ma dal peso relativo assai inferiore, nel collegio, a quello di Trento o dell'area Rovereto-Riva-Arco negli altri due collegi. Si spiega così, almeno in parte, l'anomalia del comportamento elettorale del Trentino orientale. Nelle passate tornate elettorali politiche, i candidati del centrosinistra autonomista nel collegio senatoriale di Pergine hanno dovuto fare i conti con due grandi handicap insieme: la debolezza (e la demotivazione) dell'elettorato democratico e la fuga, di una parte dei loro elettori alle provinciali, dal voto ad un centrosinistra nazionale vissuto come estraneo e lontano dalle preoccupazioni, dagli interessi e perfino dai linguaggi di chi vive nelle valli e lavora sul mercato. La scelta di candidati moderati da parte del centrodestra, come Gubert e Santini, ha fatto il resto.
Questa volta abbiamo provato a cambiare schema. Abbiamo candidato un esponente del Pd, nell'intento di motivare e impegnare quest'area dell'elettorato. E soprattutto abbiamo cercato di parlare a quella vasta parte di elettori che si sente lontana dal centrosinistra nazionale, ma che ha perso ogni fiducia e speranza nel centrodestra, sia nella versione berlusconiana che in quella leghista. Abbiamo cercato di parlare a questi elettori presentando l'accordo per i collegi del senato per quello che esso è, una proiezione nel parlamento nazionale della stessa coalizione che ha governato a lungo e bene il Trentino e che oggi si presenta unita per portare a Roma i due capisaldi sui quali ha basato il suo successo: la cultura dell'autonomia delle genti di montagna, contro tutte le tentazioni neocentraliste, sia romane che padane; e la cultura dell'interclassismo, della saldatura tra città e valli, tra mercato e spesa pubblica, tra lavoro dipendente e iniziativa privata. Due capisaldi da intendere in modo creativo e innovativo e non difensivo: perché l'autonomia si può salvaguardare solo stringendo alleanze nazionali (come quelle, parallele e convergenti, tra Svp-Patt e Pd da una parte e Upt e Scelta civica dall'altra) in una prospettiva di riforma dello Stato e del suo rapporto con i territori, a cominciare da quelli montani; e perché l'interclassismo non può più contare, né a Roma né a Trento, sul potente coadiuvante di un'abbondante spesa pubblica, ma deve tradursi in un patto per le riforme economiche e sociali, finalizzate a innalzare in modo deciso la produttività del sistema pubblico e ad alleggerire il carico fiscale, ormai insostenibile, che grava sull'impresa e sul lavoro.
Sapremo lunedì sera se la proposta del centrosinistra autonomista avrà saputo conquistare a questo ambizioso progetto politico almeno una parte degli elettori delusi dal fallimento del centrodestra. O se invece, su entrambi i fianchi dello schieramento politico italiano, anche da noi avrà finito col prevalere il voto di protesta: certo legittimo, mai come ora comprensibile e giustificato, per la sofferenza vera che vivono tante famiglie, tante imprese, tanti lavoratori, e per la pessima prova di sé che ha dato la politica nazionale. Ma comunque un voto sterile e pericoloso, sia per la nostra autonomia che per il nostro paese.
Qualunque sarà l'esito del voto, una cosa possiamo dire di averla imparata: la strada per diventare maggioranza nel paese, per il centrosinistra nazionale, passa anche per la Valsugana, le valli di Fiemme e Fassa, il Primiero, Lavarone e Luserna.Lunedì sera sapremo, insieme a tante altre cose più grandi e importanti, se il centrosinistra autonomista trentino sarà riuscito a spezzare l'incantesimo che non gli ha mai consentito di vincere il collegio senatoriale di Pergine e del Trentino orientale. Mai vuol dire mai. Dal 1994 ad oggi, cioè da quando si vota col maggioritario, in questo collegio ha sempre vinto il centrodestra: la prima volta con Boso, poi due volte con Gubert e altre due con Santini. Eppure, il centrosinistra autonomista, anche nel Trentino orientale, è sempre risultato vincente alle elezioni per noi più importanti, quelle provinciali.
Come si spiega questa contraddizione? E come si può pensare di superarla? Sono le due domande che mi sono posto poco meno di un mese fa, quando ho avuto il grande onore di essere candidato dal centrosinistra autonomista (Patt-Svp, Pd e Upt) proprio su questa difficile frontiera. Al termine di una campagna elettorale tanto breve quanto intensa, dopo decine e decine di incontri con gli interlocutori più diversi, non posso dire di avere certezze, ma un'idea meno approssimativa credo di averla maturata, nel confronto con tanti elettori.
La ragione fondamentale del divario tra il voto provinciale e quello politico mi pare vada ricercata nella persistente incapacità del centrosinistra nazionale (a cominciare dal mio partito, il Pd) a rappresentare un'area vasta e maggioritaria di italiani: quelli che abitano nei piccoli centri e che si guadagnano da vivere sul mercato (agricoltori, operai, artigiani, commercianti, piccoli e medi imprenditori). Il centrosinistra nazionale è invece da sempre maggioritario nelle aree urbane e tra quanti vivono di spesa pubblica, come gli impiegati, gli insegnanti, gli operatori socio-sanitari e così via. Si tratta di due Italie che guardano in modi assai diversi tra loro a temi cruciali nel dibattito politico: basti pensare a come vive il proprio rapporto col fisco, o con la giustizia, o con gli immigrati, ad esempio un insegnante, e come lo vive invece un artigiano, o anche un operaio.
Non si tratta naturalmente, per noi democratici, di rinunciare al primato che abbiamo conquistato nelle città e che è un grande punto di forza del nostro insediamento politico ed elettorale, ma di prendere atto che la maggioranza degli italiani è altrove e che quindi, se vogliamo governare l'Italia con il consenso della maggioranza degli elettori, dobbiamo riuscire a parlare di più e meglio anche all'Italia profonda, quella che va meno sui media, perché vive e lavora in contesti più appartati, ma che poi vota e decide.
Il centrosinistra autonomista, in Trentino, è riuscito in questa impresa, e infatti governa la Provincia autonoma da quasi vent'anni, perché ha saputo saldare, anche grazie alla leadership di Lorenzo Dellai, la forza del Pd nelle aree urbane, con il radicamento dell'Upt e del Patt nelle vallate.
Il collegio senatoriale del Trentino orientale è l'unico, nella nostra provincia, nel quale l'area urbana è del tutto minoritaria, concentrata attorno a Pergine, la terza città del Trentino, ma dal peso relativo assai inferiore, nel collegio, a quello di Trento o dell'area Rovereto-Riva-Arco negli altri due collegi. Si spiega così, almeno in parte, l'anomalia del comportamento elettorale del Trentino orientale. Nelle passate tornate elettorali politiche, i candidati del centrosinistra autonomista nel collegio senatoriale di Pergine hanno dovuto fare i conti con due grandi handicap insieme: la debolezza (e la demotivazione) dell'elettorato democratico e la fuga, di una parte dei loro elettori alle provinciali, dal voto ad un centrosinistra nazionale vissuto come estraneo e lontano dalle preoccupazioni, dagli interessi e perfino dai linguaggi di chi vive nelle valli e lavora sul mercato. La scelta di candidati moderati da parte del centrodestra, come Gubert e Santini, ha fatto il resto.
Questa volta abbiamo provato a cambiare schema. Abbiamo candidato un esponente del Pd, nell'intento di motivare e impegnare quest'area dell'elettorato. E soprattutto abbiamo cercato di parlare a quella vasta parte di elettori che si sente lontana dal centrosinistra nazionale, ma che ha perso ogni fiducia e speranza nel centrodestra, sia nella versione berlusconiana che in quella leghista. Abbiamo cercato di parlare a questi elettori presentando l'accordo per i collegi del senato per quello che esso è, una proiezione nel parlamento nazionale della stessa coalizione che ha governato a lungo e bene il Trentino e che oggi si presenta unita per portare a Roma i due capisaldi sui quali ha basato il suo successo: la cultura dell'autonomia delle genti di montagna, contro tutte le tentazioni neocentraliste, sia romane che padane; e la cultura dell'interclassismo, della saldatura tra città e valli, tra mercato e spesa pubblica, tra lavoro dipendente e iniziativa privata. Due capisaldi da intendere in modo creativo e innovativo e non difensivo: perché l'autonomia si può salvaguardare solo stringendo alleanze nazionali (come quelle, parallele e convergenti, tra Svp-Patt e Pd da una parte e Upt e Scelta civica dall'altra) in una prospettiva di riforma dello Stato e del suo rapporto con i territori, a cominciare da quelli montani; e perché l'interclassismo non può più contare, né a Roma né a Trento, sul potente coadiuvante di un'abbondante spesa pubblica, ma deve tradursi in un patto per le riforme economiche e sociali, finalizzate a innalzare in modo deciso la produttività del sistema pubblico e ad alleggerire il carico fiscale, ormai insostenibile, che grava sull'impresa e sul lavoro.
Sapremo lunedì sera se la proposta del centrosinistra autonomista avrà saputo conquistare a questo ambizioso progetto politico almeno una parte degli elettori delusi dal fallimento del centrodestra. O se invece, su entrambi i fianchi dello schieramento politico italiano, anche da noi avrà finito col prevalere il voto di protesta: certo legittimo, mai come ora comprensibile e giustificato, per la sofferenza vera che vivono tante famiglie, tante imprese, tanti lavoratori, e per la pessima prova di sé che ha dato la politica nazionale. Ma comunque un voto sterile e pericoloso, sia per la nostra autonomia che per il nostro paese.
Qualunque sarà l'esito del voto, una cosa possiamo dire di averla imparata: la strada per diventare maggioranza nel paese, per il centrosinistra nazionale, passa anche per la Valsugana, le valli di Fiemme e Fassa, il Primiero, Lavarone e Luserna.
pubblicata oggi sul quotidiano trentino. Quale Suo elettore desidero
dirLe: non ci pensi nemmeno a proporre o caldeggiare accordi con il
PDL. Qui chi vola basso è Lei ed è a forza di volare bassi che siamo
arrivati alla situazione attuale.
Moltissimi voti grillini erano
nostri e se solo mi accorgo che Lei, mio rappresentante, fa il tifo per
accordi con il PDL, alle prossime tornate elettorali i grillini avranno
anche il mio di voto, sempre che per protesta non decida di votare PDL.
\"Per favore\" si attenga alla linea espressa da Bersani, che la
maggioranza di noi, io compreso, abbiamo scelto come nostro leader.
Lei
è stata solo una scelta obbligata. Sono convinto che quanto da Lei espresso
sia stato motivato da onestà intellettuale in buona fede, rispetto anche il suo mandato senza vincolo ma ritengo
che Lei si stia sbagliando!
Se rivoluzione deve essere, rivoluzione
sarà, i suoi dubbi e tentennamenti prolungheranno solamente l\'agonia
del PD.
Grazie per l\'attenzione, cordiali saluti.
Susini Franco -
Pergine Valsugana