Feb
02
2010
È in gioco il futuro del Pd
 

Su entrambi i versanti dello schieramento politico, si stanno concludendo le operazioni di selezione dei candidati presidenti di regione. Poi toccherà alle liste per i consigli regionali e con la fine del mese saremo in campagna elettorale in ben tredici regioni italiane. Si avvicina quindi il momento della battaglia elettorale ed è necessario serrare i ranghi. La posta in gioco è infatti molto alta. Nel 2005, di quelle tredici regioni oggi in palio, il centrosinistra ne aveva conquistate undici: un risultato irripetibile. Oggi il centrosinistra si accontenterebbe di tenerne sei o sette. Al di sotto di quel livello di guardia, la sconfitta diventerebbe una rotta e la vittoria di Berlusconi un trionfo. Con tutti i rischi del caso, non solo per il Partito democratico e il centrosinistra, ma per il Paese.

E tuttavia, proprio questo stato di cose spiega perché, ad appena tre mesi dalla sua elezione a segretario del Pd, la leadership di Pierluigi Bersani e ancora di più la sua linea politica, siano già messe in discussione. E non tanto da parte di quanti, tra i quali chi scrive, lo avevano lealmente avversato nella lunga stagione congressuale. E' stato lo stesso Romano Prodi, insieme a Walter Veltroni padre fondatore prima dell'Ulivo e poi del Pd, a chiedersi pochi giorni fa su "La Repubblica" non solo "chi comanda nel Pd", ma ancora più radicalmente "se ci siano ancora le condizioni per stare assieme". A quest'ultima domanda, Francesco Rutelli e con lui una nutrita pattuglia di parlamentari hanno già risposto di no, uscendo dal partito per dare vita all'Api, o per confluire direttamente nell'Udc. A loro volta i radicali, che avevano iniziato un tormentato percorso di confluenza nel Pd, hanno ripreso per intero la loro libertà, compresa quella di correre fuori dai confini del centrosinistra. Nel frattempo, la vicenda Bonino nel Lazio e quella Vendola in Puglia hanno diffuso la sensazione di un ribaltamento dei ruoli all'interno del centrosinistra, con un Pd che da polo di attrazione diventa terreno di incursioni e scorrerie altrui. In un simile scenario, parlare di "cedimento strutturale" del Pd, come ha fatto sul "Trentino" di venerdì scorso Lorenzo Dellai, è certamente forzato sul piano descrittivo, ma non del tutto su quello previsionale: se le cose vanno avanti così, quello descritto da Dellai può diventare l'esito inevitabile.

Il problema è capire come intervenire, dopo le elezioni regionali, per fare delle politiche del 2013 una sfida aperta e non già un confronto tutto all'interno della metà campo del centrodestra. Dellai pensa che Bersani debba accentuare, anzi radicalizzare, la discontinuità rispetto alla linea veltroniana della "vocazione maggioritaria" e del "partito delle primarie", frutti a suo dire di una suggestione "americana", illusoria e fuorviante. E debba farlo in favore di "una nuova architettura del sistema politico italiano", basata su coalizioni multipartitiche, come tali incompatibili con le primarie, e su partiti identitari, tra i quali il Pd dovrebbe riscoprire la propria identità di "sinistra", lasciando ad altri la rappresentanza del "centro".

Sono tra coloro che pensano invece che il Pd debba riscoprire e rilanciare le intuizioni originarie che furono alla base della sua fondazione, a cominciare proprio dalla vocazione maggioritaria: che non significa, non ha mai significato, presunzione di autosufficienza, ma meno banalmente riforma del bipolarismo italiano, nella direzione di una piena maturità europea. Non serve scomodare l'America per vedere come anche in Europa il bipolarismo si strutturi sulla competizione o tra due partiti, o tra due coalizioni, ma costruite entrambe attorno ad un grande partito che raduna attorno a sé, al suo programma, alla sua leadership, poche forze intermedie. Solo in Italia, dal 1994 al 2008, il bipolarismo si è tradotto in frammentazione esasperata, con poche forze politiche di media grandezza, nessun vero grande partito e uno sciame di partitini a conduzione familiare, in perenne metamorfosi.

Sul versante di centrodestra, questo stato di cose, strutturalmente contraddittorio con qualunque esigenza di governabilità, è stato compensato dalla leadership individuale, corredata di imponenti risorse private, di Silvio Berlusconi, con tutti i noti rischi di conflitto d'interesse e di degenerazione populista del nostro sistema democratico. Sul versante opposto, la deriva della frammentazione ha portato all'infausta esperienza dell'Unione, che non solo ha abbattuto il governo che avrebbe dovuto sostenere, il Governo Prodi, ma ha scavato un fossato profondo tra il centrosinistra e il Paese. Su quel fossato, il Pd di Veltroni, nel 2008, con le sue scelte al tempo stesso obbligate e coraggiose, ha lanciato un ponte, il ponte della riforma del bipolarismo italiano, che infatti è uscito trasfigurato dalle elezioni politiche: due grandi partiti, di dimensioni europee, uno poco sopra e uno poco sotto il 35 per cento, e tre forze intermedie (Lega Nord, Udc, Idv), alle quali potrà aggiungersene un'altra, a sinistra del Pd, qualora riesca a superare l'attuale condizione di diaspora.

Certo, il Pd ha perso le elezioni nel 2008, ma a causa del fallimento dell'Unione, non della sua vocazione maggioritaria. Sarebbe quindi un tragico abbaglio pensare di tornare a vincere (e a governare) liberandosi della seconda e riproponendo sotto mutate spoglie la prima: una coalizione costruita sommando tutte le forze contrarie alla destra, senza preoccuparsi della loro capacità di condividere un programma di governo, attorno ad una leadership riconosciuta.

Che questo schema, lo schema classicamente italiano della coalizione frammentata e disordinata, non possa funzionare, lo dimostra lo stesso Dellai, quando afferma di considerarlo incompatibile con la pratica delle primarie: cioè con lo strumento, certo imperfetto e tuttavia ormai affermato, per dare risposta alla prepotente domanda di partecipazione diretta dei cittadini alle grandi decisioni politiche che, pur con tutte le sue inevitabili ambivalenze, è uno dei segni più marcati di questo nostro tempo.

E lo dimostra, lo stesso Dellai, con ancora maggiore evidenza, quando invoca il ritorno ad un'alleanza tra un "centro" e una "sinistra" distinti tra loro: di nuovo uno schema sconosciuto all'Europa, dove da questa parte dello schieramento politico, i grandi partiti sono solo partiti riformisti, come tali di "centrosinistra". Una distinzione, quella tra centro e sinistra, che può cercare il suo fondamento solo nel passato, nella storia certo travagliata del nostro Paese. Ma non può reggere alla prova del futuro: perché il domani d'Italia domanda un partito nel quale le diverse tradizioni riformiste, consapevoli ciascuna della propria insufficienza dinanzi agli inediti problemi del nostro tempo, convergano nella ricerca di un pensiero nuovo, di un nuovo programma riformatore e nella formazione di una nuova generazione di dirigenti politici, all'altezza dei grandi problemi del Paese. Attorno ad un grande Partito democratico, si potrà costruire un nuovo sistema di alleanze per il governo dell'Italia. Senza il magnete di un grande partito a vocazione maggioritaria, a vincere sarebbe solo la forza centrifuga, una nuova, letale stagione di frammentazione.

Leggi qui l'articolo di Dellai


3 commenti all'articolo - torna indietro
inviato da md il 03 February 2010 18:06
Caro Tonini,
d'accordo sulla strategia - ma come si vince tatticamente la frammentazione "nel" Pd?
inviato da Giomimmo il 03 February 2010 15:20
Sarò breve. In fondo voglio solo sapere perché pare vietato dire a militanti ed elettori del PD che il nuovo Partito uscito dal Congresso non ha più nulla in comune con il PD.
Che si tratta di un altro Partito, un nuovo Partito che si avvale del corpo del PD per affermare una linea politica del tutto opposta a quella del PD.
Militanti ed elettori hanno diritto di sapere che siamo tornati nei dintorni del 1994/95.
Il modo, molto accurato e abile, col quale è avvenuta la metamorfosi ha impedito che fosse colta.
Per molti si è in presenza della reinterpretazione (!!!), da parte di una diversa sensibilità politica, della linea del PD; per moltissimi altri, la confusione e la disperante situazione in cui versa il Partito sono la prova che il progetto del PD è fallito. E che non potesse essere altrimenti, purtroppo, in quanto quel progetto poggiava le sue fragili basi su un "sogno" irrealizzabile, il "sogno di Veltroni".
Capisco che siamo in campagna elettorale. Forse è persino giusto il "serrare le fila" che anche tu invochi. Ma, secondo me, il problema più importante non è -già oggi- il risultato elettorale, ma di far rivivere il PD, almeno nella speranza di chi ci aveva creduto. Come? intanto contrastando accordi e chiacchiere fra Segreterie di Partiti, opponendosi all'innaturale ruolo subalterno che si sta facendo giocare a questo PD del quale è rimasto solo il nome, dicendo "no" ad alleanze innaturali che portano sempre più lontano dall'ispirazione del PD.
Ma soprattutto riannodando quel profondo, entusiasmante legame di popolo con il PD che Veltroni era riuscito a far nascere e crescere nel corso della campagna elettorale del 2008.
Forse occorre una mobilitazione analoga, incontri diretti con la gente , una specie di nuova evangelizzazione.
Un caro saluto.
inviato da piero.m il 02 February 2010 21:32
Grazie.
Nelle tue parole mi sono ritrovato.
E' il punto di partenza del PD, che le difficoltà elettorali e la lotta tra i dirigenti stanno mantenendo lì, senza alcun progresso apparente.
Anzi, sembra esserci qualche rischio di involuzione.
Per andare avanti, due spunti di riflessione:
1. la nostra forza non è mai stata nelle alleanze con gli altri partiti, tentati più dall'importanza del nostro serbatoio di voti che dalle nostre idee;
2. la nostra forza è stata in passato e continua ad essere, come dimostrano le primarie, la partecipazione della gente; tra l'altro, se siamo in crescita elettorale attiriamo l'attenzione degli altri, se siamo in crisi con gli elettori veniamo attaccati e criticati dai nostri stessi potenziali alleati.

Senza rifiutare le alleanze, che servono per la politica di oggi e dell'immediato domani, dobbiamo puntare su un nostro consolidamento tra la gente.
Questo è, detto forse con un po' di retorica, il nostro vero alleato: il cittadino che vuole partecipare e contare (convinto che la democrazia sia prima di tutto un'espressione di giustizia, orientato ad un progresso basato sul lavoro, attento alla tutela della salute, consumatore accorto, culturalmente curioso, solidale, interessato all'ampliamento dei diritti e del benessere, cosciente che questi si possano ottenere e mantenere solo con buone regole per tutti...).
Partiamo da lì: aumentiamo la nostra attenzione per la partecipazione e facciamola contare veramente (guai a continuare a tradirla con richiami solo strumentali). Non limitiamola al solo aspetto locale: il cittadino di cui sopra è interessato all’acquedotto e ai giardinetti sotto casa, ma è preoccupato anche dalla crisi del petrolio, dalle fonti alternative, dalle strategie nazionali e internazionali per il lavoro, dai problemi di salute dovuti all’inquinamento…
Promuoviamo dibattiti per arrivare a proposte di legge da sostenere in parlamento in quanto leggi che corrispondono all'interesse del popolo: sull'ambiente, sull'economia, sui diritti civili...
Leggi ne proponiamo già tante, e anche buone leggi.
Ma spesso non hanno forza, perché sono di un gruppo che è minoranza e dietro non c'è sostegno. Si dimenticano nei meandri delle aule parlamentari e stanno lì senza che nessuno ne sappia più nulla.
Le nostre leggi devono avere un forte sostegno di base. Devono far seguito ad un dibattito ampio, magari su un giornale, con polemiche, proposte contrapposte, espressioni di consenso su articoli e temi specifici.
Ricordo i tanti interventi di un tempo sull'Unità.
Devono trarre forza dall'opinione pubblica, dalla segnalazione di bisogni reali, dalla convergenza di interessi che si possono compattare.
Basterebbe un dibattito su un argomento nuovo ogni due-tre mesi, un solo tema per volta, con il risultato di una proposta di legge che venga portata in parlamento dai nostri parlamentari e del cui decorso si informino costantemente gli interessati.
Si deve ridare forza al legame tra gli eletti e gli elettori. Per questo non è necessario essere il segretario del partito, basta avere un giornale che sia disposto a mettere a disposizione una pagina e poi INTERNET, uniti ad un po' di spirito d'iniziativa per lanciare un tema e gestire il dibattito che ne scaturisce.
E' forse un azzardo, non facile da controllare. Ci possono essere dei rischi, come è stato per qualsiasi novità che abbia in passato coinvolto la popolazione. Ma almeno è una via d'uscita dal soffocante gioco tattico sul rapporto tra le forze politiche: un gioco che sta stancando.
Bisogna smarcarsi: tre o quattro leggi di questo tipo, in un anno, potrebbero diventare un programma e una linea politica, in grado di riportare al centro del dibattito il popolo con i suoi problemi.
Questa strada potrebbe anche allettare altri fino ad inflazionarla: non penso però che siano in tanti a voler puntare sulla partecipazione. E poi si deve distinguere il semplice "movimentismo", quasi fine a se stesso, soddisfatto di fare un po' di rumore e di creare un effetto alone intorno ad un leader, dal metodico lavoro di un partito che sta dalla parte dei soggetti deboli e che punta ad un reale miglioramento della società, che non si accontenta se non dopo aver prodotto un reale cambiamento (come è spesso stato nella tradizione di partito e del sindacato di un tempo).
Tali proposte di legge potrebbero infine diventare una base quasi irrinunciabile nel confronto con i potenziali alleati e nello scontro con gli avversari, data la loro forza di proposte partecipate.
Il nostro partita saprebbe gestire un tale fenomeno per evitare di cadere nel populismo di maniera? A mio parere sì, perché tra gli elettori che potrebbero partecipare al dibattito costruttivo ce ne sono ormai tantissimi che sanno essere propositivi e non protestatari.
Si delineerebbe anche un percorso di uscita dal buio tunnel della mancanza di prospettive, perché ci si chiarirebbe reciprocamente su come potercele dare insieme: il partito di una società matura non si misura con lo scarso numero di elettori, che calano ad ogni tornata elettorale. Questo indicatore poteva andare bene in una società relativamente tranquilla, come quella degli ultimi decenni del secolo scorso.
Le tensioni del nuovo millennio, le sfide globali a livello culturale ed economico impongono strade nuove. Le destre sono tentate dalle prove di forza. Un reale miglioramento, però può venire solo da una strategia che punti a sfruttare al meglio le potenzialità di un più elevato livello culturale raggiunto non da una ristretta élite di intellettuali, bensì da una larga massa.
Nella capacità di interpretare questa nuova potenzialità partecipativa sta il bandolo della matassa: siamo in tanti che possiamo fare e pensare, quali possono essere gli spazi? Quali i nuovi confini tra delega e non delega? Quali le potenzialità di nuove convergenze di pensiero?
Si potrebbe tornare a discutere del perché, del senso delle proposte, del senso della vita. Di ideali e di futuro, senza idealismo e fantasticherie.
Mi scuso della lunghezza dell'intervento, che comunque limito pur avendo molto altro da dire.
Se interessasse, non mi dispiacerebbe discutere un po' più a lungo di come rilanciare il PD come soggetto in grado di interfacciarsi con una larga parte dell'elettorato italiano. Ovviamente non ho ricette; mi piace, però, pensarci su.
Grazie ancora.

(verrà moderato):

:

:

inizio pagina