A ormai poche settimane dallo scioglimento delle camere, il confronto sulla riforma della legge elettorale continua a trascinarsi nella sostanziale inconcludenza. Eppure, tutte le forze politiche che hanno dato vita e sostengono il governo Monti sono consapevoli che è in gioco la loro credibilità davanti ai cittadini, che per nessuna ragione sono disposti ad accettare come inevitabile tornare al voto con la legge attualmente in vigore.
Naufragate tutte le ipotesi più ambiziose, che legavano la riforma elettorale a una riforma costituzionale, vuoi nella direzione del cancellierato alla tedesca, vuoi in quella del semipresidenzialismo alla francese, non resta sul tavolo che l’opzione di una correzione almeno delle storture più gravi e insopportabili, agli occhi dei cittadini, della legge Calderoli. E tuttavia, ormai da settimane se non mesi, la trattativa tra le forze politiche si è arenata nella contrapposizione paralizzante tra posizioni che hanno alla base ciascuna un pezzo di ragione, che rischia tuttavia, nel perdurare della paralisi, di capovolgersi in torto. Da una parte, anche sulla scia di un pronunciamento della Corte costituzionale, si mette giustamente in evidenza l’incompatibilità col principio di rappresentanza proporzionale, per quanto corretto in chiave maggioritaria, di un premio di maggioranza garantito alla prima lista o coalizione di liste, indipendentemente da qualunque soglia minima di consenso: l’effetto tutt’altro che ipotetico, in un sistema politico frammentato come quello attuale, potrebbe essere un quasi raddoppio della rappresentanza parlamentare della forza di maggioranza relativa, che potrebbe aggiudicarsi il 55 per cento dei deputati con meno del 30 per cento dei voti.
Dall’altra parte, non meno ragionevole appare l’argomento opposto, di chi sostiene che una soglia di accesso al premio troppo alta (quella oggi prevista dal testo votato in commissione è del 42,5 per cento), finirebbe per renderla di fatto irraggiungibile, con il più che probabile effetto di impedire il formarsi nel voto di una chiara maggioranza di governo. I cittadini sarebbero così espropriati del diritto di scegliere chi debba governarli. E tuttavia, la controproposta avanzata per superare questa obiezione, quella di un premio di rappresentanza alla prima lista, non appare del tutto convincente: non fosse altro, perché finisce per riprodurre lo stesso dilemma della soglia di accesso al premio (se troppo alto risulta forzato, se troppo piccolo rischia di essere inutile), col risultato di paralizzare la trattativa fino al rischio, oggi assai serio, di un nulla di fatto.
Da questo vicolo cieco si può uscire solo con un compromesso. E l’unico compromesso difendibile, non solo sul piano della qualità democratica, ma anche del suo realismo politico è il doppio turno: non quello di collegio, “alla francese”, come pure sarebbe auspicabile, ma almeno quello di coalizione, ossia un meccanismo analogo a quello utilizzato alle elezioni comunali, per il quale le due liste (o coalizioni di liste) che raggiungono il maggior numero di voti, senza che alcuna abbia superato una soglia minima prefissata (che potrebbe restare anche il 42,5 per cento), sono rinviate ad un secondo turno di ballottaggio, naturalmente con la possibilità di coinvolgere le liste escluse in coalizioni più ampie. Sarebbero così gli elettori a decidere quale coalizione far governare, sulla base di accordi trasparenti. In questo modo, si potrebbero sommare virtuosamente le ragioni di entrambe le posizioni oggi in campo: la previsione di una soglia minima di accesso al premio e la legittimazione elettorale delle coalizioni di governo.
Analogo impegno per una buona mediazione, riteniamo andrebbe dedicato alla ricerca di una soluzione più soddisfacente dell’altro grave limite del Porcellum: la scelta degli eletti da parte degli elettori. Anche in questo caso siamo in presenza di due opposte soluzioni, entrambe insoddisfacenti. Da un lato, si propone la reintroduzione (nel caso del senato sarebbe peraltro una prima assoluta) del voto di preferenza, ma nell’ambito di circoscrizioni enormi, in particolare al Senato dove coincidono con le regioni, inaccessibili a candidati che non dispongano di risorse gigantesche, in evidente contraddizione con la spinta a ridurre i costi della politica. La previsione di una quota di candidature bloccate non fa che peggiorare la funzionalità, oltre che la presentabilità, del nuovo meccanismo. D’altra parte, la controproposta del Pd di tornare ai collegi uninominali, in sé sacrosanta, non riscuotendo consensi se non minoritari, rischia di apparire un diversivo, volto nei fatti a mantenere le attuali, insostenibili, liste bloccate.
Eppure, anche in questo caso, una plausibile ipotesi di mediazione esiste e risulta anche di facile realizzazione: basterebbe ridurre drasticamente l’ampiezza delle circoscrizioni, per esempio alla dimensione provinciale (come ridisegnata dal recente decreto governativo), per rendere sostenibile sia la reintroduzione del voto di preferenza (certamente alla camera, eventualmente anche al senato), sia (nel caso si preferisse mantenere la tradizione del senato) la previsione di liste bloccate corte, comunque in grado di ripristinare un corretto rapporto tra eletti e territorio.
Ci pare che le due proposte qui avanzate, che mi pare abbiano il pregio del realismo, dell’equilibrio e del velo di ignoranza circa le convenienze nell’imminente confronto elettorale, possano rappresentare, nelle condizioni date, un buon compromesso, che sarebbe incomprensibile non perseguire.