Quattro anni fa, la parola d'ordine vincente di Obama fu "Change", accompagnata dallo slogan "Yes, we can!" Quattro anni dopo, Obama ha conquistato il secondo mandato presidenziale (e un posto nella storia, non più solo come primo presidente nero) grazie a un'altra parola: "Forward", avanti! E a un altro slogan: "Four more years!", datemi, diamoci, altri quattro anni, il tempo necessario per provare a trasformare un episodio di rottura, che ha corso il rischio di ridursi all'ennesimo sogno spezzato della storia americana, un po' Kennedy e molto Carter, in un vero ciclo riformista, meno lontano dal modello Roosevelt.
Obama li ha avuti, questi altri quattro anni. E sappiamo già per quali obiettivi li spenderà: sul piano internazionale, per far avanzare la prospettiva di un governo multilaterale del multipolarismo, coniugando il rispetto dell'autodeterminazione dei popoli con la scelta preferenziale per la democrazia e i diritti umani; e sul piano interno, per la creazione delle premesse per uno sviluppo sostenibile, non più drogato da una domanda a debito, ma fondato sulle solide basi di un reddito creato dalla produzione, dal lavoro, dalla conoscenza.
Su entrambi i versanti, Obama deve indurre e accompagnare gli Stati Uniti a "declinare crescendo", per prendere a prestito un fortunato ossimoro di Bruno Manghi: declinare in termini relativi, dal rango di iperpotenza solitaria e imperiale (o meglio dalla illusione di possederlo) che ha caratterizzato la stagione di George W. Bush, ma per per crescere, fino ad esercitare il ruolo di "presidente democratico" di una comunità internazionale che ha ancora e forse più che mai bisogno di un "egemone responsabile". E declinare da una crescita a debito, che si è in effetti rovesciata in dipendenza, oltre che in squilibrio globale insostenibile, in favore di una crescita solida, basata sulla straordinaria capacità degli Stati Uniti di inventare, innovare, creare non solo prodotti, ma idee, paesaggi umani, in definitiva mondi immaginari e realizzabili al tempo stesso: dal grattacielo, allo spazio, fino al computer e all'ipod.
Nei quattro anni del suo primo mandato, Obama ha posto premesse significative di questa ambiziosa impresa. Ma sul piano internazionale, alla nuova dottrina, che di per sé ha cambiato lo scenario (basti pensare alla primavera araba), non hanno ancora corrisposto successi tangibili nella gestione delle tante crisi regionali, a cominciare dalla questione israelo-palestinese. Su quello interno, il principale insuccesso di Obama è stato il blocco del Congresso, figlio della deriva hyperpartisan della politica americana, e in particolare della egemonia della destra religiosa e ideologica sul Partito repubblicano.
Su entrambi i fronti, Obama sa di non potersi aspettare miracoli. Ma la sua autorevolezza esce indubbiamente rafforzata dalla conferma elettorale: un dato che potrà rivelarsi prezioso ad esempio nella gestione dell'intricato dossier mediorientale, così come nel rapporto col Congresso. In particolare, la sconfitta per quanto onorevole di Romney, insieme alla vittoria dello spirito unitario e bipartisan di Obama, potrebbe indurre ad una più matura riflessione nel Partito repubblicano, circa la sterilità politica e perfino elettorale del radicalismo di destra, schiudendo la possibilità di una nuova stagione di cooperazione tra Casa Bianca e Campidoglio.
Per l'Europa, la rielezione di Obama presenta il vantaggio di confermare un rapporto ormai rodato e nel complesso positivo. E non solo per la popolarità di Obama nel Vecchio Continente: non è vero infatti che Obama si disinteressi dell'Europa, anche se è indubbio che il Pacifico ha da tempo conquistato una posizione centrale nell'agenzia della Casa Bianca. Obama sa che solo insieme all'Europa potrà affrontare i due principali dossier che ingombrano il suo tavolo nello studio ovale: la crisi economica e il rapporto col mondo arabo-islamico.
La vittoria di Obama parla anche a noi, democratici italiani. Innanzi tutto perché mantiene vivo e anzi rilancia poderosamente il pensiero democratico, quello che avevamo voluto porre alla base del partito nuovo, della casa comune dei riformisti italiani. Un pensiero che, proprio perché fa della democrazia, con la sua umanistica consapevolezza del limite radicale della politica, il suo ideale regolativo, rifugge dall'ideologia e dallo spirito conservatore che essa porta con sé (insieme e non casualmente con una buona dose di cinismo), in favore di un impasto originale di radicalità dei valori, dei principi, dei comportamenti, degli stili di vita, e di pragmatismo creativo e curioso, nella ricerca di soluzioni innovative ai problemi collettivi.
Un pensiero che considera semplicemente insensata la distinzione e ancor più la divisione del lavoro, tra sinistra e centro, tra progressisti e moderati. Obama è irriducibile ad una sola di queste due dimensioni: come ogni vero riformista democratico, Obama è al tempo stesso un progressista, un uomo di sinistra, per i fini che persegue, a cominciare dalla promozione della pace tra i popoli e dell'uguaglianza sociale e civile. Ed è un moderato, un centrista, per la capacità di dialogo, lo spirito bipartisan, la disposizione alla gradualità nel cambiamento di cui pure avverte l'urgenza. Una volta la chiamavamo "vocazione maggioritaria". E vorrà pur dire qualcosa (e dovrebbe essere per noi democratici motivo di riflessione approfondita) che gli italiani che hanno stabilito un feeling più forte e diretto con Obama si chiamano Giorgio Napolitano, Mario Monti e Sergio Marchionne.