Come ha detto giustamente Mario Monti, il più grande e gravoso dei costi della politica è quello di cui si parla meno. Non sono i privilegi della casta, che pure vanno rimossi senza timidezze, o le spese per i palazzi delle istituzioni, che vanno adeguati senza indugio agli standard europei. Il vero costo della politica è il prezzo delle mancate decisioni, della fuga stile Savoia dalla verità sui problemi e dalla responsabilità di proporre le relative soluzioni, anche scontando un'immediata impopolarità.
Del resto, se si pensa che quello di cui c'è bisogno, in fondo, è qualche aggiustamento, robusto sì, ma niente di più, si fa presto a concludere che ciò che davvero conta e fa la differenza, per il paese, non è cosa si deve fare, ma chi si siede nella stanza dei bottoni. Se ci saremo noi, cioè tutti quelli che sono uniti dalla volontà di impedire che ci siano loro, le intese sul da farsi le troveremo, senza bisogno di stare ora a discutere (e a dividerci) su ogni scelta: una bella mediazione verbale tra posizioni che restano diverse e spesso in contrasto fra loro (ricordate le 286 pagine del programma dell'Unione?) e via alla campagna elettorale.
Può perfino succedere che ci si divida e ci si contrapponga, nel centrosinistra, sul governo Monti e sul suo tentativo estremo di salvare il paese dal default e l'Europa dalla dissoluzione: tra quanti, come il Partito democratico, lo sostengono in modo impegnato e responsabile e quanti vi si oppongono, come Italia dei Valori o Sinistra e Libertà, in modo duro, aspro, radicale. E che ci siano ancora quanti, da ambo le parti, pensano che possa trattarsi di una parentesi, chiusa la quale si possa tornare a costruire un'alleanza per vincere.
Ma vincere cosa? Certo non il governo del paese, posto che con simili premesse è evidente che non si saprebbe cosa farsene. Come si potrebbe governare senza idee chiare e convergenti, non sui dettagli, ma sui fondamenti della politica economica, di quella europea, di quella estera? L'esperienza dell'Unione (2006-2008) ha dimostrato che non è possibile.
La storia di questi anni ci ha detto che non è per questa via, la via delle alleanze ambigue sul piano della cultura politica e reticenti sul piano programmatico, che si costruisce l'Italia dei democratici. Perché nessuno dei problemi «di sistema», che rischiano di portare il paese al disastro, può essere affrontato se non attraverso un profondo cambiamento dello stato attuale delle cose. E nessun governo sarà in grado di realizzarlo, il cambiamento necessario, se non avrà chiesto e ottenuto dalla maggioranza degli elettori un preciso mandato a farlo, sulla base di un discorso di verità, proposto al paese prima e non dopo le elezioni.
Per la banale ragione che il possente intrico di interessi mobilitati nella difesa dello status quo sarà sempre in grado di prevalere se i riformisti al governo non potranno usare, per piegare la reazione dei conservatori, la forza di un esplicito mandato, richiesto agli elettori e da loro conferito.
Neppure questo basterà. Dovrà essere chiaro, nel dialogo di verità tra i democratici e gli elettori, che il cambiamento di cui il paese ha bisogno può essere realizzato solo nel corso di un ciclo di governo che abbracci almeno due legislature: un vero ciclo riformista, come quelli che hanno cambiato tutti i paesi europei e che l'Italia invece non ha mai conosciuto. Proprio per questo, per il carattere radicale, unitario e di lungo periodo del cambiamento necessario, il progetto dei democratici deve essere ben definito fin dall'inizio e la sua trasformazione in atti di governo deve cominciare dal primo giorno della prima legislatura.
Ci duole ammetterlo, ma non ci pare che al momento il centrosinistra e lo stesso Pd dispongano di un progetto del genere e siano in grado di comunicarlo al paese. Altrimenti non ci saremmo trovati e non ci troveremmo nella strana condizione per cui il fallimento del governo Berlusconi si è tradotto in una caduta verticale di credibilità della politica nel suo insieme e non, come sarebbe stato naturale aspettarsi, del solo centrodestra. Altrimenti non avremmo assistito e non assisteremmo al curioso e inedito fenomeno per cui la caduta di consenso del centrodestra sta ingrossando ormai da anni le fila dell'astensione o delle forze populiste, più o meno antisistema, mentre nemmeno uno di quei voti si è finora spostato verso il centrosinistra e verso il Partito democratico.
A noi parrebbe che di paradossi come questi varrebbe la pena parlare, ragionare, discutere. E invece il centrosinistra, e il Pd in particolare, ormai da anni vivono col fiato sospeso, come se un qualsiasi accenno di vera discussione interna potesse spezzare l'incantesimo della crisi del berlusconismo e di una possibile vittoria del centrosinistra, ottenuta per abbandono del campo da parte dell'avversario.
Noi pensiamo che non si possa costruire nulla di solido su fondamenta tanto fragili. Non si costruisce, come abbiamo detto fin qui, sulla reticenza programmatica, sul primato della convenienza tattica sul merito strategico, una prospettiva di governo che si proponga non di galleggiare sui problemi del paese, ma di affrontarli con lucidità, rigore, determinazione adeguati alla gravità del passaggio storico che l'Italia sta vivendo.
Ma non si costruisce nemmeno un partito, quanto meno un partito «democratico», sull'identificazione tra discussione politica interna e attentato all'unità del partito stesso, tanto più riprovevole in quanto farebbe «il gioco dell'avversario».
Se ci siamo decisi a raccogliere in queste pagine alcune «idee per un manifesto riformista» è perché pensiamo che mai come oggi ci sia bisogno di un Partito democratico che coltivi ed esprima quella che a noi da sempre piace chiamare la sua «vocazione maggioritaria». Che non è una presuntuosa pretesa di autosufficienza, né il banale auspicio di diventare maggioranza, ma lo sforzo di parlare a tutto il paese (e non solo alla parte tradizionalmente orientata a sinistra), a partire da una lettura realistica e spregiudicata delle sfide che esso ha dinnanzi a sé alla ricerca aperta e curiosa, pragmatica, delle vie per affrontarle nel modo migliore: naturalmente, sulla base dei nostri ideali, gli ideali dei democratici, a cominciare da quello dell'uguaglianza.
Noi pensiamo che solo per questa via il Pd potrà ampliare i suoi consensi, diventare il primo partito italiano, per virtù propria e non per abbandono degli avversari, e proporsi quindi come il motore di un governo capace di rimuovere gli ostacoli che oggi bloccano lo sviluppo del paese: una disuguaglianza troppo grande, una crescita troppo lenta, un debito pubblico troppo pesante.